Il mostro è finalmente vivo e ha conquistato il Lido di Venezia con una standing ovation da primato. “Frankenstein” di Guillermo del Toro, presentato in concorso alla 82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, ha ricevuto ben 15 minuti di applausi scroscianti, lasciando in lacrime tanto il regista messicano quanto il protagonista Jacob Elordi in quello che rappresenta il trionfo di un progetto visionario coltivato per oltre trent’anni.
Il kolossal Netflix da 120 milioni di dollari segna il ritorno di del Toro nella competizione veneziana dopo il trionfo del 2017 con “La forma dell’acqua”, che gli valse il Leone d’Oro e successivamente quattro Oscar, inclusi quello per il Miglior Film e la Migliore Regia. Questa volta il maestro del cinema fantastico ha deciso di confrontarsi con il capolavoro gotico di Mary Shelley del 1818, trasformandolo in quello che definisce “una biografia di questi personaggi” piuttosto che un semplice film horror.
Oscar Isaac interpreta il dottor Victor Frankenstein, lo scienziato brillante ma egoistico che dà vita alla creatura interpretata da Jacob Elordi, in una reinterpretazione freudiana che esplora i rapporti padre-figlio e le dinamiche familiari disfunzionali. Il cast stellare include Mia Goth, Christoph Waltz, Felix Kammerer, Lars Mikkelsen, David Bradley, Charles Dance e Christian Convery, sotto la direzione di un del Toro che ha definito questo progetto “la culminazione di un viaggio che ha occupato gran parte della mia vita”.
Per il cinema italiano, sempre attento alle evoluzioni del gotico cinematografico, questo “Frankenstein” rappresenta una lezione magistrale su come reinventare un classico senza tradirne l’essenza, utilizzando un budget hollywoodiano per creare un’opera d’autore che parla di perdono, comprensione e dell’importanza di ascoltarsi reciprocamente.
L’ossessione trentennale che diventa capolavoro
Del Toro ha trasformato la sua ossessione infantile per il mostro di Frankenstein in una meditazione profonda sulla natura umana e sui traumi generazionali. “Sin da bambino – cresciuto molto cattolico – non riuscivo a capire i santi. Poi quando ho visto Boris Karloff sullo schermo, ho capito come dovesse apparire un santo o un messia”, ha rivelato il regista, spiegando come il personaggio si sia fuso con la sua anima diventando quasi un’autobiografia.
Il processo creativo ha richiesto una dedizione maniacale: del Toro aveva già iniziato i test di trucco con Doug Jones nel 2009, aveva passato nove mesi a disegnare il look per Andrew Garfield (poi sostituito da Elordi) e ha dovuto ridisegnare tutto in sole nove settimane quando l’attore australiano è entrato nel progetto a causa di conflitti di programmazione legati agli scioperi SAG-AFTRA.
La visione estetica del regista si discosta dalle rappresentazioni tradizionali: “Non volevo cicatrici simmetriche né suture o morsetti. Volevo che sembrasse un puzzle, bello come una cosa appena nata, perché spesso Frankenstein entra in scena sembrando una vittima di incidente”, ha spiegato, creando una creatura che Jacob Elordi ha definito “la forma più pura di me stesso”.
Il budget da blockbuster per un’opera d’autore
Netflix ha investito 120 milioni di dollari in quello che rappresenta una scommessa coraggiosa: utilizzare un budget da kolossal per un film d’autore di due ore e mezza che il regista stesso non considera horror ma “tragedia, romanticismo e riflessione filosofica su cosa significhi essere umani”. Una strategia che punta tanto sui sottoscrittori della piattaforma quanto sui votanti degli Oscar.
La strategia distributiva prevede un’uscita cinematografica esclusiva di tre settimane dal 17 ottobre, seguita dal debutto streaming il 7 novembre. Un compromesso che del Toro ha accettato consapevolmente: “Se la scelta è tra poter fare il film con una distribuzione parzialmente cinematografica e parzialmente streaming o non farlo affatto, è una decisione facile da prendere”.
Il cast internazionale ha lavorato per mesi nella preparazione: Jacob Elordi ha passato fino a 10 ore al giorno nella sedia del trucco, mentre Oscar Isaac ha sviluppato il personaggio attraverso lunghe conversazioni con del Toro sui rispettivi padri e sulle esperienze di vita, creando quella che l’attore definisce “una fusione” artistica profonda.
L’eredità del cinema fantastico italiano e mondiale
La direzione della fotografia di Dan Lausten e le musiche di Alexandre Desplat completano un’operazione artistica che del Toro vede come “liricamente emotiva” piuttosto che orrorifica. “Non sto cercando di scrivere musica dell’orrore”, ha spiegato Desplat, sottolineando come l’approccio del regista sia sempre poetico e malinconico.
Le location internazionali – Toronto per i set principali, Edinburgh e Burghley House nel Lincolnshire per le riprese aggiuntive – hanno permesso di ricreare l’atmosfera gotica necessaria per una storia che del Toro considera universale: “È la canzone dell’esperienza umana, la storia di un padre e di un figlio”.
La reazione della critica si è rivelata polarizzante: mentre alcuni recensori hanno elogiato la regia e le performance definendo il film “titanico” e “singolare”, altri hanno criticato il ritmo languido e l’interpretazione di Isaac come “artificiosa e irregolare”. Una divisione che rispecchia la natura ambiziosa e divisiva dell’operazione.
L’impatto sulla nuova generazione di cineasti
Il successo veneziano di “Frankenstein” dimostra come sia ancora possibile realizzare cinema d’autore visionario con budget importanti, offrendo una lezione preziosa per i giovani registi italiani che spesso devono accontentarsi di produzioni a basso costo. Del Toro ha dimostrato che la passione personale e la visione artistica possono convincere anche i grandi studios a investire in progetti non convenzionali.
La collaborazione con Netflix rappresenta un modello interessante per l’industria: la piattaforma ha garantito al regista libertà creativa totale, permettendogli di realizzare la versione definitiva di un progetto inseguito per decenni. Un approccio che potrebbe ispirare altri autori a esplorare partnership simili.
L’eredità artistica che del Toro lascia con questo film va oltre il genere horror: dimostra come si possa trasformare un’ossessione personale in arte universale, creando opere che parlano di temi eterni attraverso linguaggi contemporanei. Un’eredità preziosa per tutti coloro che credono nel potere trasformativo del cinema d’autore.
Il trionfo veneziano di “Frankenstein” conferma Guillermo del Toro come uno dei pochi registi contemporanei capaci di coniugare visione artistica personale e appeal commerciale, creando opere che sfidano il pubblico pur mantenendo un’accessibilità emotiva che le rende universalmente comprensibili e profondamente umane.
E tu cosa ne pensi di questa reinterpretazione freudiana di Frankenstein? Credi che del Toro sia riuscito a rinnovare un classico senza tradirlo, o pensi che certi miti dovrebbero rimanere intoccati? Raccontaci nei commenti se sei curioso di vedere come Jacob Elordi interpreta la creatura più famosa della letteratura gotica.



