A quanto pare, il Carnevale 2025 ci ha riservato un’ennesima discussione infuocata su un tema ormai ricorrente: i dolci delle feste venduti a prezzi da capogiro. Quest’anno, sul banco degli imputati troviamo Iginio Massari, famoso pastry chef che ha deciso di proporre le sue chiacchiere a 100 euro al chilo. Una cifra che, per molti, è simile a quella di un accessorio di lusso, più che a un prodotto alimentare.
E così, tra critiche e difese, ci ritroviamo a domandarci: ma com’è possibile vendere delle “banali” chiacchiere a un costo così elevato? E soprattutto, ha senso indignarsi se esiste qualcuno disposto a pagarle quel tanto?
Una polemica che non si spegne
Le voci critiche si sono levate da subito, con chef e addetti ai lavori pronti a esprimere il proprio disappunto. Guido Mori, per esempio, non ci è andato leggero e ha detto che a questi livelli “non parliamo più di cibo, ma di cinture di Gucci.” Un paragone pungente, che fa emergere l’idea di un dolce trasformato in status symbol.
Tuttavia, dobbiamo considerare un aspetto: se Massari riesce a vendere a 100 euro al chilo, significa che c’è un pubblico disposto a spendere quella cifra. Forse per prestigio, forse per la qualità, forse per avere la “firma” del maestro sul vassoio. O magari per far colpo sugli amici quando porti qualcosa di super griffato a una cena in famiglia.
Vero è che secondo Altroconsumo, a Milano le chiacchiere si trovano anche a 60 euro al chilo nel segmento di alta pasticceria, e addirittura a 6 euro nei supermercati. Una forbice davvero enorme. Ma la cifra tonda di 100 euro fa scalpore e diventa un simbolo: un confine psicologico che, a quanto pare, molti non sono disposti a ignorare.
Cibo o oggetto di lusso?
Viene da chiedersi: fino a che punto il cibo può diventare un oggetto di lusso? È davvero paragonabile a una cintura firmata? Da una parte, c’è chi dice che il cibo, specialmente durante feste popolari come il Carnevale, dovrebbe conservare il suo carattere tradizionale e restare accessibile a tutti. In fondo, le chiacchiere sono nate come un dolce semplice, di pasta fritta e zucchero a velo.
Dall’altra parte, però, in un’economia di mercato esiste la regola che se c’è richiesta, c’è anche offerta. È un po’ come per i vini pregiati: ci sono bottiglie a 10 euro, ma anche bottiglie che costano migliaia di euro. Chi ha i soldi (e la voglia) di pagare un prezzo folle, è libero di farlo. E chi preferisce risparmiare, compra in altri posti.
Guido Mori sottolinea che il prezzo di 100 euro “si discosta troppo dal costo delle materie prime” e diventa un’operazione di marketing. Un modo per far sentire chi compra quei dolci come parte di un’élite. E in effetti, un conto è giustificare un leggero sovrapprezzo per la qualità, un altro è moltiplicare il costo a dismisura.
Pasticcerie che vendono a prezzo maggiore, ma senza clamore
Un dettaglio interessante di questa polemica è che altre pasticcerie, come la storica Marchesi 1824 (acquisita dal gruppo Prada), vendono chiacchiere a un costo che, calcolato al chilo, supera addirittura quello di Massari. Si parla di cifre intorno ai 125 euro, ma in quel caso il listino appare in forma di “prezzo per pezzo” e non si crea un caso mediatico.
Quindi, a volte la differenza sta solo in come presenti il costo al pubblico. Se vendi una chiacchiera a un euro, la gente non si scandalizza immediatamente; ma se dici “125 euro al chilo,” scoppia il putiferio. È tutta una questione di percezione, di come i numeri vengono comunicati.
C’è davvero chi le compra?
La vera domanda è: chi tira fuori 100 euro per un chilo di chiacchiere? Non stiamo parlando di un costoso champagne o di un tartufo raro. Parliamo di sfoglie fritte e cosparse di zucchero a velo. Eppure, a quanto pare, qualcuno c’è. Potrebbe essere la persona che vuole “fare il figurone” alla festa, o chi desidera dire: “Ho portato le chiacchiere firmate Massari.” E allora, se c’è una fetta di clientela disposta a investire su un brand, ecco che il prezzo si giustifica sul piano commerciale.
Insomma, questa storia ci mostra che la gente è disposta a comprare il marchio, più che la sostanza. Non significa necessariamente che le chiacchiere di Massari non siano buone — magari lo sono davvero — ma con ogni probabilità si possono trovare ottime chiacchiere anche a 10 euro, in pasticcerie artigianali locali.
Tradizione popolare a caro prezzo
Le chiacchiere, dette anche frappe, cenci, bugie, sono simbolo di Carnevale. Un tempo erano il dolce povero che le nonne cucinavano in casa, mescolando pochi ingredienti economici. E adesso? Si è passati a un prezzo che scardina l’idea stessa di “festa popolare.” Mori critica proprio questo: “Il cibo è essenziale, non uno status symbol.”
Alcuni ritengono che questo meccanismo rispecchi la società moderna, in cui molti aspetti di una semplice tradizione diventano l’occasione per vendere lusso e apparenza. Come i panettoni da 50 o 60 euro, o i pandori con glassa firmata da chef stellati. Chi si scandalizza potrebbe essere una persona legata a un’idea di gastronomia inclusiva, mentre chi acquista questi prodotti di lusso considera il cibo alla stregua di un prodotto griffato, come un abito di haute couture.
Materie prime e “food cost”
Diciamolo chiaramente: le chiacchiere sono fatte di farina, uova, zucchero, burro o olio e poco altro. Certo, c’è il lavoro dell’artigiano, l’olio cambiato spesso, la cura nella frittura. Ma la differenza tra 10 euro al chilo e 100 euro non può essere tutta lì. È ovvio che la reputazione del pasticcere incida.
Anche i sostenitori di Massari fanno notare che lui utilizza materie prime di qualità altissima, ma chef Mori commenta che “l’olio di semi costa circa 1 euro e 60 al litro” e, con i metodi industriali di filtraggio, non serve cambiare tutto l’olio ogni volta. Insomma, il cost delle materie prime non dovrebbe salire alle stelle.
C’è poi chi aggiunge che la lavorazione sia molto lunga e delicata, ma stiamo pur sempre parlando di un processo ben noto, che i bravi pasticceri artigianali affrontano da decenni. Se qualcuno vende ottime chiacchiere a 10, 15 o 20 euro, la differenza di 80 o 90 euro in più potrebbe sembrare immotivata, a meno che non stiamo pagando soprattutto il “nome” sul pacchetto.
L’effetto “firma di moda”
L’analogia con Gucci o con Prada suggerisce che, in questi casi, il cibo sia diventato un oggetto di desiderio griffato. Come per un accessorio d’alta moda, il prezzo è giustificato dal fatto di appartenere a un brand famoso. Non compri solo il gusto (o il tessuto), compri la storia, lo status, l’immagine che ti proietta.
Possiamo condannare questo meccanismo? Dipende dai punti di vista. C’è chi lo considera una forma di marketing lecita: se la gente vuole il brand e pagare tanto, buon per loro. Dall’altro lato, c’è chi sente un senso di straniamento, pensando che ci stiamo allontanando dal valore genuino del cibo, ridotto a un’etichetta costosa da sfoggiare.
In fondo, se c’è un mercato, c’è un perché: la curiosità, la voglia di sfoggiare i prodotti “esclusivi” e la certezza che, in qualche modo, la firma prestigiosa garantisca un livello elevato (o almeno riconoscibile).
Ma esistono alternative?
Assolutamente sì. Se uno non vuole sganciare 100 euro, può tranquillamente recarsi dal panettiere o nel laboratorio artigianale del proprio quartiere e trovare chiacchiere altrettanto gustose a prezzi più umani. Molti pasticcieri seri propongono la versione fritta e quella al forno, con piccoli dettagli originali, come l’aggiunta di scorze di agrumi o un mix di farine di pregio.
E non dimentichiamo che le chiacchiere si possono fare anche in casa, se hai un po’ di tempo e qualche amico con cui divertirti a friggere. Non costeranno di certo 100 euro al chilo e, se le fai con ingredienti buoni, otterrai un risultato niente male.
I panettoni di Cannavacciuolo e il “brand a tutti i costi”
Nel discorso rientra anche la questione dei panettoni di Antonino Cannavacciuolo, venduti a prezzi che qualcuno definisce stellari. Lo stesso Mori li aveva menzionati per sottolineare che, pure in quel caso, paga più la griffe che la sostanza. Eppure, c’è da dire che i panettoni di Cannavacciuolo (come quelli di altri chef celebri) sono comunque apprezzati da una buona fetta di consumatori.
Di nuovo, la logica è questa: se il mercato risponde, perché non farlo? Se a Natale voglio stupire con un pacco dal design elegante, con il nome di un grande chef, lo compro e stop. Magari esistono panettoni di pari qualità a metà prezzo, ma il brand ha una forza di richiamo maggiore.
Conclusioni: il prezzo lo fa il mercato
La vicenda di Iginio Massari e delle chiacchiere a 100 euro ci racconta un fenomeno più ampio: il cibo, specie quando firmato da uno chef mediatico, può assumere le dinamiche del lusso. Non è più soltanto “farina e zucchero,” diventa un oggetto distintivo, un veicolo di immagine.
Perché meravigliarsi, allora? Se la gente le compra, significa che ne vale la pena per loro. Magari per me e per te è folle spendere così tanto, ma se c’è una nicchia disposta a farlo, Massari non fa altro che rispondere alla domanda. Sbaglia? Non necessariamente. In un libero mercato, ognuno chiede il prezzo che vuole. È legittimo che Chef Mori e altre persone critichino la deriva di “lusso sfrenato” che poco si sposa con la tradizione popolare del Carnevale, ma non si può certo impedire a Massari di fissare la soglia che preferisce.
Quanto alla qualità, c’è chi è rimasto deluso dai dolci del maestro e chi invece li adora. In ogni caso, si può trovare benissimo chiacchiere ottime a 10 euro e magari avere pure la soddisfazione di sostenere un piccolo laboratorio locale. L’importante è sapere cosa si sta comprando e perché.
E tu, che ne pensi? Sei dalla parte di chi considera questo prezzo un insulto alla tradizione popolare, oppure credi che la gente sia libera di spendere quanto vuole se desidera un marchio di lusso? Se ti va, lascia un commento e raccontami la tua opinione su questa polemica che sta facendo parlare mezza Italia.