Quando vedi il nome di Scott Frank sui titoli di coda, ti aspetti il meglio. Parliamo dell’uomo che ha scritto capolavori come Logan, The Queen’s Gambit e Out of Sight. Ma Dept. Q – Sezione casi irrisolti dimostra che anche i migliori sceneggiatori del mondo possono essere sconfitti dall’epidemia delle serie streaming gonfiate oltre ogni limite. Nove ore per raccontare una storia che sarebbe stata perfetta in un film di due ore? Netflix, dobbiamo parlare.
Matthew Goode e il trauma che non basta
La serie inizia forte: il detective Carl Morck (Matthew Goode) è sulla scena di un crimine con il partner Hardy (Jamie Sives) quando un killer mascherato irrompe sparando. Il giovane poliziotto muore, Hardy rimane paralizzato, e Morck sopravvive per miracolo con una pallottola nel collo. Trauma garantito.
Goode, sempre sottovalutato ma sempre efficace, riesce a dare profondità al classico “poliziotto sull’orlo di una crisi di nervi”. Il suo Morck è amareggiato fino alla spregiudicatezza, ma questo lo rende paradossalmente un detective migliore – ora sfonda le barriere burocratiche che prima rispettava. È accompagnato dalla terapeuta Dr. Rachel Irving (Kelly Macdonald), che cerca di rimettergli insieme i pezzi.
Il dream team che funziona (quando può)
Morck viene costretto a formare la sezione casi irrisolti insieme ad Akram Salim (Alexej Manvelov), un genio analitico che bilancia perfettamente l’approccio istintivo del protagonista, e Rose (Leah Byrne), l’ambiziosa del gruppo. Manvelov è una rivelazione – riesce a rendere affascinante il personaggio del “nerd che legge tutti i fascicoli” senza mai cadere nel cliché.
Il primo caso che scelgono è la scomparsa di Merritt Lingard (Chloe Pirrie), una procuratrice dura come l’acciaio sparita quattro anni prima. Scopriamo abbastanza presto che non è morta, ma è prigioniera in una camera pressurizzata dove viene torturata da quattro anni. Già qui capisci dove andrà a parare la storia.
La doppia indagine che poteva essere geniale
Ecco l’idea più intelligente di Dept. Q: seguire il caso da entrambe le prospettive. Da una parte i detective che indagano dall’esterno, dall’altra Merritt che cerca di capire chi l’ha rapita e perché dalla sua prigione. È una variazione interessante su Oldboy, con la vittima costretta a risolvere il mistero della propria prigionia.
Sulla carta è brillante. In pratica, guardare Merritt venire torturata per letteralmente ore diventa più estenuante che rivelatorio. Scott Frank è bravissimo a scrivere dialoghi e sviluppare personaggi, ma qui si trova intrappolato dalla necessità di riempire nove episodi con materiale che bastava per un lungometraggio.
Il precedente cinematografico che funzionava
La cosa più frustrante è che questa storia è già stata adattata nel 2013 nel film danese “The Keeper of Lost Causes”, scritto dal candidato all’Oscar Nikolaj Arcel. Un film che funzionava perfettamente nella durata cinematografica tradizionale. Netflix ha preso quel materiale e l’ha stiracchiato fino al punto di rottura.
Quando finalmente arriva la rivelazione del rapitore, non ti importa più niente. È come un viaggiatore che arriva alla meta talmente spossato dal percorso da non riuscire più a godersela.
Scott Frank vittima del proprio successo
Il paradosso di Dept. Q è che Frank rimane uno scrittore meraviglioso anche quando è intrappolato in una struttura sbagliata. I singoli momenti brillano: i dialoghi sono taglienti, le dinamiche tra personaggi autentiche, le performance eccellenti. Ma l’insieme non funziona perché la storia si appoggia troppo sul mistero centrale per sostenere nove ore di televisione.
È come guardare un virtuoso del pianoforte costretto a suonare la stessa melodia per ore. La tecnica è impeccabile, ma l’effetto finale è alienante. Frank riesce a far risplendere ogni singolo episodio, ma la somma delle parti non giustifica la lunghezza totale.
Kelly Macdonald e il cast che non merita questo trattamento
Kelly Macdonald nel ruolo della terapeuta porta quella naturalezza che l’ha resa indimenticabile in Trainspotting e Boardwalk Empire. Il problema è che il suo personaggio, come tutti gli altri, viene diluito in una narrativa che non sa quando fermarsi.
Chloe Pirrie deve interpretare una donna torturata per quattro anni, ed è credibile nel suo dolore e nella sua determinazione. Ma chiederle di mantenere quella tensione per nove episodi è quasi crudele nei confronti sia dell’attrice che dello spettatore.
Il problema sistemico dello streaming
Dept. Q è l’ennesima vittima della mania delle ore visualizzate di Netflix. La piattaforma preferisce serie lunghe che tengano gli utenti incollati agli schermi piuttosto che prodotti di qualità con la durata giusta per la storia che devono raccontare.
Il risultato è che anche scrittori del calibro di Scott Frank finiscono per sabotare il proprio talento in nome di metriche che non hanno nulla a che fare con la qualità narrativa. È come costringere Hemingway a scrivere romanzi da mille pagine.
La speranza per la seconda stagione
La cosa più frustrante è che tutti i problemi di Dept. Q sono facilmente risolvibili. Il cast è eccellente, la scrittura (quando non deve riempire tempo) è brillante, la premessa funziona. Basterebbero sei episodi invece di nove, o meglio ancora cinque.
Se Netflix decidesse di ascoltare le critiche invece di guardare solo le statistiche, la seconda stagione potrebbe essere quella che tutti speravamo di vedere fin dall’inizio. Ma conoscendo la piattaforma, probabilmente raddoppieranno gli episodi.
Il verdetto: talento sprecato
Dept. Q è la dimostrazione che anche i migliori possono essere sconfitti dal sistema. Scott Frank rimane un genio, Matthew Goode conferma di essere sottovalutato, e il resto del cast merita riconoscimenti. Ma tutto questo talento viene annacquato in una struttura narrativa che privilegia la quantità sulla qualità.
Se hai amato The Queen’s Gambit, preparati a rimanere deluso. Se invece hai molto tempo libero e la pazienza di guardare performance eccellenti immerse in una trama che si trascina, potresti trovare momenti di brillantezza tra le lungaggini.
Tu cosa ne pensi? Sei disposto a sopportare nove ore di dilatazione narrativa per i momenti di genio di Scott Frank, o preferisci che Netflix torni a fare film quando la storia lo richiede? Dimmi nei commenti se anche tu pensi che le piattaforme streaming stiano rovinando anche i migliori sceneggiatori con la loro ossessione per le ore visualizzate!
La Recensione
Dept. Q - Sezione casi irrisolti
Il genio dietro The Queen's Gambit e Logan si schianta contro l'ossessione Netflix per le ore visualizzate. Matthew Goode è eccellente e il cast brillante, ma nove episodi per una storia da film trasformano un potenziale capolavoro in una maratona estenuante che spreca talento di altissimo livello.
PRO
- Scott Frank alla sceneggiatura che resta un maestro anche quando limitato dalla struttura
- Matthew Goode sottovalutato in una performance intensa e sfaccettata del detective traumatizzato
CONTRO
- Nove episodi inutilmente gonfiati per una storia che funzionerebbe meglio in due ore di film
- Ritmo estenuante che annacqua momenti brillanti in lungaggini inspiegabili e frustranti
- Tortura prolungata della protagonista che diventa più alienante che drammaticamente efficace