C’è Mario.
Mario ha sui cinquant’anni, ed è stato rinchiuso dopo aver tentato di uccidere la moglie e la figlia in seguito ad un raptus di follia.
No, non fa pena, per questo.
Fa pena quando chiede timidamente le mele cotte agli altri matti come lui, rinchiusi come lui, che mangiano le sue stesse cose, ma che a differenza sua non si nutrono unicamente di quel frutto appassito nel forno.
Mario fa pena quando passa ore ed ore a guardare un uccellino che alberga sull’albero davanti alla sua finestra; a dargli da mangiare, ad invidiargli la libertà.
Fino a cadere, pur di raggiungerlo. Fino a volare di sotto, forse coscientemente, forse no, un po’ come l’Antonio di cui raccontava Cristicchi nella sua “Ti regalerò una rosa”.
Poi c’è Gianluca.
Gianluca mette tristezza.
Mette tristezza quando la sua stessa madre, che dovrebbe essere la persona a stargli maggiormente accanto e a sostenerlo, lo definisce pazzo e lo fa rinchiudere solo perché ha avuto la colpa di nascere con un’anima da donna in un corpo da uomo. E si sa che è l’anima quella più forte, tra i due, che decide chi sei, e come devi essere.
Gianluca mette tristezza quando scruta gli altri con i suoi occhioni truccati e riceve in cambio occhiate stranite, quasi disgustate.
Non è che sia Gianluca, però, a mettere tristezza, mettiamolo in chiaro. Ciò che mette tristezza è l’ambiente attorno alla sua fragile e complessa figura, e le persone che vi orbitano.
Ma c’è anche allegria, riguardo a lui, per lui. Quando finalmente trova degli amici, che lo accettano per com’è, e gli vogliono bene come merita, tanto da non voler più lasciare la clinica, ché il mondo di fuori è ancora troppo spaventoso per il suo cuore delicato.
Giorgio invece trasmette malinconia.
Lui, con le sue braccia devastate da cicatrici che gli servono a ricordare quanto è facile soffrire. Lui, che porta su di sé, impresse sulla propria pelle, tutte le volte in cui gli è tornata in mente la mamma che non ha potuto vedere morire, da sola in un letto d’ospedale.
Lui, grosso ed imponente, che però di colpo si spezza come un fuscello, si scioglie come un bambino piccolo di fronte al minimo ostacolo.
Lui, che chissà perché, rapido come un pensiero, viene nuovamente avviluppato dai propri demoni interiori, che lo rendono un burattino vuoto ed urlante.
Di Madonnina e Alessandro non c’è molto da dire. O meglio, ci sarebbe tanto da dire, se solo si potesse leggere nella loro mente, che è travagliata da chissà quali pensieri, devastata da chissà quali traumi, e che si traduce in comportamenti ossessivi per Madonnina, e in apatia totale per Alessandro.
E infine, ultimo ma non ultimo, c’è Daniele.
Daniele, con le sue poesie struggenti e malinconiche che forse nessuno in questo mondo possiede le orecchie giuste per ascoltare senza che vengano sprecate, banalizzate.
Daniele, con i suoi scoppi d’ira e di depressione, e la sua personale visione del mondo: un mondo in cui tutto chiede salvezza.
Già, salvezza.
Ecco cosa trasmette Daniele; non un vero e proprio sentimento, bensì una fervida volontà: quella di salvarlo, di salvare tutti gli altri come lui.
Sei persone diverse, queste.
Sei esistenze opposte, sei caratteri talvolta contrastanti, che però hanno in comune una cosa: essere considerati matti da chi è al di fuori della loro mente, di chi non capisce, di chi li considera solo dei nomi in una cartella clinica.
Nulla si può fare, per scampare a tale etichettamento: solo guardarsi negli occhi, fratelli dispersi nella medesima guerra sempiterna, e sorridere.
Semplicemente sorridere, sorridersi a vicenda, con calore, trasporto e affetto, perché nessuno di loro è solo, in fin dei conti, non finché ci sono gli altri, finché sono tutti insieme. Non una cura, questa. Un sollievo, però.
E forse bisogna essere pazzi, per comprendere davvero i pazzi, io non lo so.
So solo che mi pongo sempre la stessa domanda, cui ancora non ho trovato risposta: ma in fin dei conti, poi, i veri pazzi chi sono?
“Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.”
Daniele