L’ultima stagione di Monster: La storia di Ed Gein ha lasciato tutti con una domanda scomoda. Nel finale, il “Macellaio di Plainfield”, uno dei criminali più famigerati d’America, sembra aiutare la polizia a rintracciare un altro mostro leggendario: Ted Bundy.
Una scena d’impatto, potente, costruita per restare impressa. Ma quanto c’è di vero in tutto questo?
Il collegamento tra Gein e Bundy, in realtà, non è mai esistito. È una scelta narrativa voluta dal regista Ryan Murphy, che ha immaginato un incontro impossibile tra due incarnazioni diverse del male. Da un lato Gein, l’assassino rurale, solitario e ossessionato dalla madre. Dall’altro Bundy, il killer affascinante e razionale, simbolo dell’orrore che si nasconde dietro la normalità.
Per capire perché questa finzione funzioni così bene, bisogna guardare alla loro storia e a cosa rappresentano.
Ed Gein, il volto dell’orrore americano
Ed Gein nacque nel 1906 a Plainfield, nel Wisconsin. Cresciuto in un ambiente isolato e dominato da una madre fanatica, sviluppò un’ossessione morbosa per la purezza e la punizione. Dopo la morte della madre, nel 1945, la sua mente crollò del tutto.
Nel 1954 uccise Mary Hogan, una donna del posto, e tre anni dopo fece la stessa cosa con Bernice Worden, proprietaria di una ferramenta. Quando la polizia fece irruzione nella sua casa, scoprì l’inimmaginabile: resti umani ovunque, lampade fatte con pelle, maschere ricavate da volti, teschi trasformati in ciotole.
Gein confessò di aver profanato numerose tombe e di aver usato i cadaveri per costruire un “corpo femminile perfetto”. Fu dichiarato incapace di intendere e di volere e internato nel manicomio criminale di Mendota, dove rimase fino alla morte nel 1984.
Il suo nome divenne sinonimo di terrore e ispirò film come Psyco, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti. Gein è il punto di partenza del moderno immaginario horror: l’uomo comune che nasconde un inferno dentro casa.
Ted Bundy, l’orrore dietro il sorriso
A differenza di Gein, Ted Bundy non era un recluso. Era affascinante, colto, e sapeva manipolare con abilità. Tra il 1974 e il 1978 uccise almeno trenta donne, ma molti credono che le vittime fossero molte di più.
Bundy rappresentava una forma di male diversa: quella seducente, lucida, intelligente. Il suo era un orrore urbano, “pulito”, capace di insinuarsi nelle università, nei quartieri tranquilli, nella fiducia delle sue vittime.
Fu catturato nel 1978 dopo un banale controllo stradale. Processato e condannato a morte, venne giustiziato nel 1989. Nessun indizio, nessuna testimonianza collegano Bundy a Gein. Quando Bundy iniziava a uccidere, Gein era già da anni rinchiuso in un ospedale psichiatrico.
Un incontro che non è mai avvenuto
Nel finale di Monster, Gein viene mostrato mentre collabora con due agenti dell’FBI nella caccia a Bundy. Fornisce loro una serie di intuizioni psicologiche che sembrano aiutarli a delineare il profilo del killer.
Ma qualcosa non torna. L’episodio lascia volontariamente spazio all’ambiguità, suggerendo che tutto potrebbe essere solo un’allucinazione di Gein, un modo per sentirsi ancora importante, per convincersi di aver avuto un’influenza sui nuovi assassini.
Ryan Murphy trasforma così una fantasia di potere in un simbolo. Gein, chiuso nella sua cella, diventa la metafora del male che non muore, del seme oscuro che continua a germogliare in altre menti. Non collabora davvero con la polizia, ma immagina di farlo, illudendosi di essere parte di qualcosa di più grande.
La realtà storica
La verità è molto più semplice. Gein non ha mai collaborato con le autorità su altri casi. Non ha mai incontrato agenti dell’FBI, né è mai stato interrogato su altri assassini.
Quando l’FBI iniziò i primi studi sui serial killer, negli anni ’70, Gein era considerato un paziente psichiatrico gravemente instabile, incapace di fornire informazioni utili. Passava il tempo leggendo romanzi pulp, riviste religiose e ascoltando la radio.
L’idea di un Gein “consulente” è del tutto inventata. Ma funziona, perché risponde a un bisogno tipico del pubblico: trovare un filo conduttore, una logica, un’eredità del male.
Perché la serie sceglie questa finzione
Il collegamento con Bundy è una scelta artistica più che storica. Ryan Murphy non cerca di riscrivere la realtà, ma di raccontare qualcosa di più profondo: come la violenza diventa mito.
Gein rappresenta il male arcaico, quello nascosto nei campi e nelle case di legno. Bundy, invece, è il male moderno, elegante e calcolatore. Metterli insieme serve a creare un dialogo tra due epoche, due visioni dell’orrore.
È un modo per dire che il male non scompare, ma si trasforma. Oggi non ha più il volto sporco e confuso di Gein, ma quello affascinante e manipolatore di Bundy. Entrambi, però, nascono dallo stesso vuoto.
Gein, Bundy e il fascino del male
C’è qualcosa di perversamente attraente nel vedere due mostri “incontrarsi”, anche se solo nella finzione. Forse perché ci ricorda che il male non è mai isolato. Si ripete, cambia volto, si adatta ai tempi.
La serie lo mostra bene: Gein sorride davanti alla televisione mentre vede Bundy arrestato. È una scena inquietante, quasi simbolica. Non c’è complicità, ma una specie di orgoglio malato, come se Gein riconoscesse in Bundy il suo successore.
E in un certo senso è vero. Entrambi rappresentano un’ossessione americana per il crimine, per la mente deviata, per la linea sottile tra normalità e follia.
Il mito oltre la verità
Al di là delle libertà narrative, Monster ci invita a riflettere su come la società costruisce le sue leggende. Gein e Bundy sono diventati icone pop, soggetti di film, documentari e podcast. Ma dietro la fascinazione rimane la realtà nuda: due uomini che hanno distrutto vite, famiglie e comunità intere.
Il finale di stagione, anche se inventato, riesce comunque a lasciare il segno. Mostra Gein come un vecchio fantasma che vuole sentirsi ancora parte del mondo, e Bundy come la sua ombra moderna. È una visione inquietante, ma efficace.
Ryan Murphy non ci chiede di crederci. Ci chiede di guardarci dentro e di domandarci perché, dopo decenni, queste storie ci attraggono ancora tanto.
Forse perché, in fondo, abbiamo bisogno di un volto a cui dare la colpa. O forse perché ci piace pensare che il male sia qualcosa di esterno, un virus che si trasmette da un assassino all’altro. Ma la verità, come sempre, è più scomoda: il male abita nell’uomo comune, in chiunque.
E questa, più di ogni altra cosa, è la vera eredità di Ed Gein.
Tu che ne pensi? Hai trovato efficace l’idea di unire Gein e Bundy o avresti preferito un finale più realistico? Ti piace quando le serie mescolano realtà e invenzione o credi che così si perda il rispetto per la verità? Raccontamelo nei commenti.





La serie mi è piaciuta, e ho trovato bravissimo l’attore protagonista….personalmente però, preferisco che una biografia si attenga alla realtà dei fatti,però comprendo la visuale del regista, che ha immaginato e proposto questa interazione tra i due killer.
A mio avviso, ciò che li accumunava, è una malattia mentale. Le malattie mentali sono terribili e profondamente dolorose per chi ne soffre, penso che queste persone, così malate,siano a loro volta vittime! Certo, non possono vivere nella società ma meritano comunque compassione, proprio come le loro vittime.