Il re dell’hip-hop mondiale ha deciso di aprire il suo cuore più nero nel documentario Stans, ora in programmazione nelle sale cinematografiche. Marshall Mathers, in arte Eminem, non si è risparmiato nel raccontare il suo spiral down verso l’abisso delle dipendenze, rivelando dettagli inediti su una delle cadute più drammatiche della storia della musica contemporanea. Il documentario, diretto da Steven Leckart e prodotto dallo stesso rapper, non è il classico biopic che ti aspetteresti, ma un’operazione di meta-storytelling che ribalta completamente la prospettiva narrativa.
La cosa geniale di questa produzione è che parte dal concetto di “Stan” – il brano del 2000 che ha letteralmente coniato un neologismo entrato nell’Oxford Dictionary nel 2017 – per raccontare la carriera di Eminem attraverso gli occhi dei suoi fan più devoti. È quello che nel settore chiamiamo “reverse documentary approach”: invece di seguire il classico arco narrativo dell’artista, Leckart ha scelto di utilizzare la fanbase come prisma interpretativo per decostruire il personaggio pubblico e arrivare all’uomo dietro la maschera.
Ma è nelle confessioni più intime che il documentario mostra i suoi picchi emotivi più intensi. Eminem ha rivelato di essere finito in ospedale dopo un’overdose, svegliandosi “con i tubi addosso” senza ricordare cosa fosse successo. Il ciclo della dipendenza da farmaci – Vicodin, Valium, Ambien e Xanax – era iniziato alla fine degli anni ’90 e si era protratto fino al 2008, in quella che lui stesso descrive come una “spirale viziosa” di depressione e automedicazione.
Il momento che ha cambiato tutto
Il turning point nella narrativa di Eminem arriva con un episodio che suona come una scena di un drama televisivo, ma che invece rappresenta la cruda realtà di un padre che ha rischiato di perdere tutto. Il rapper ha confessato di aver perso la festa di compleanno della figlia Hailie Jade, ora ventinove anni, a causa della sua dipendenza. “Ho pianto perché era come dire ‘Oh mio dio, me lo sono perso'”, ha raccontato nel documentario.
Questo momento rappresenta quello che noi critici musicali definiamo un “catalytic moment” – quell’evento specifico che innesca una trasformazione radicale nell’artista. La domanda che si è posto – “Vuoi fotterti di nuovo tutto questo? Vuoi perdere tutto? Se non riesci a farlo per te stesso, fottuto codardo, almeno fallo per loro” – è diventata il mantra della sua rinascita.
Il processo di detossificazione di Eminem non è stato solo fisico, ma ha comportato una completa ricostruzione della sua identità artistica. “Ho dovuto reimparare a camminare, a parlare e per la maggior parte ho dovuto reimparare a rappare”, ha confessato. È un aspetto che spesso sottovalutiamo quando parliamo di dipendenze negli artisti: l’impatto sulla creative process può essere devastante.
Il crollo e la rinascita creativa
Dal punto di vista della songwriting analysis, quello che Eminem descrive è un fenomeno che conosciamo bene nel mondo della produzione musicale. “La mia scrittura era diventata terribile”, ha ammesso, riferendosi al periodo buio della dipendenza. Quando le sostanze alterano i neurotrasmettitori responsabili della creatività, l’artista può trovarsi completamente disconnesso dal proprio flow naturale.
La rinascita creativa è arrivata gradualmente: “Quando ho iniziato a riprenderla, è stato eccitante. Perché la sentivo. Erano conversazioni, solo conversazioni con la gente o con la TV”. Questo processo di re-engagement con la realtà circostante è tipico delle fasi di recovery, dove l’artista deve ricostruire le proprie reference culturali da zero.
Il 2009 ha segnato il ritorno discografico con Relapse, un album che ha documentato musicalmente il suo percorso verso la sobrietà. Nel gergo hip-hop, questo tipo di dischi viene definito “recovery album” – progetti che fungono da testimonianza sonora di un percorso di guarigione. “Mi ha acceso una luce”, ha raccontato Eminem. “Ho capito che non mi vergognavo più della sobrietà. Ho iniziato a trattare la sobrietà come un superpotere”.
La sobrietà come superpotere creativo
Quello che colpisce di più nelle dichiarazioni di Eminem è come sia riuscito a reframing la narrativa della sua dipendenza. Invece di vedere la sobrietà come una limitazione, l’ha trasformata in una fonte di orgoglio e forza creativa. È un approccio che nel mondo della addiction psychology viene definito “empowerment narrative” – quando il recupero diventa parte integrante dell’identità artistica.
Ora, dopo diciassette anni di sobrietà, Eminem può guardare indietro e vedere il percorso compiuto. Il documentario Stans non è solo un tributo ai fan, ma anche una riflessione matura su come la vulnerabilità possa diventare forza artistica. La scelta di raccontare questi momenti bui attraverso le voci dei suoi stans è geniale: permette di mantenere quella distanza emotiva necessaria per elaborare traumi così profondi.
Il film, disponibile solo per questo weekend nelle sale AMC americane e in 1.600 cinema internazionali, rappresenta un esperimento audace nel panorama dei music documentaries. Steven Leckart ha saputo creare un’opera che funziona sia come celebrazione del fandom che come introspezione psicologica, dimostrando che l’innovazione narrativa può ancora sorprendere anche in un genere saturo come quello dei documentari musicali.
E tu cosa ne pensi di questa scelta di Eminem di aprirsi così tanto sui suoi demoni del passato? Ti ha colpito il modo in cui ha trasformato la dipendenza in forza creativa? Raccontaci la tua esperienza nei commenti!



