A 13 anni, sul set del suo primo lavoro da attore professionista, Val Kilmer fece qualcosa che avrebbe definito la sua intera carriera: si rifiutò di recitare in uno spot pubblicitario per un hamburger che “sapeva di cartone” e abbandonò il set senza essere pagato. Un episodio apparentemente insignificante che racchiude perfettamente l’essenza dell’uomo e dell’artista che ci ha lasciati lo scorso 1° aprile a causa di una polmonite, all’età di 65 anni. La storia di Kilmer è quella di un ribelle autentico in un’industria che ama commercializzare la ribellione ma raramente la tollera davvero; di un antidivo riluttante che ha costruito una carriera paradossale, diventando una star nonostante (o forse proprio grazie a) il suo rifiuto delle convenzioni hollywoodiane.
La mise-en-scène della sua vita è stata degna di un film di Werner Herzog (regista che, ironia della sorte, avrebbe voluto per realizzare il suo sogno di interpretare Frankenstein): imprevedibile, a volte caotica, spesso fraintesa, ma sempre intensamente personale. Con una filmografia eclettica che va dalle commedie demenziali come “Top Secret!” ai blockbuster come “Batman Forever”, passando per performance di incredibile profondità come quella nei panni di Jim Morrison in “The Doors”, Kilmer ha attraversato quattro decenni di cinema americano come un elettrone libero, impossibile da catalogare o prevedere.
Se Hollywood è una macchina progettata per trasformare attori in prodotti, Kilmer è stato il granello di sabbia che si è infilato negli ingranaggi, inceppandoli ripetutamente. “La fama non era la mia priorità”, ha dichiarato l’attore, e dobbiamo credergli, considerando quante volte ha sabotato consapevolmente la propria carriera in nome dell’integrità artistica. Ma è proprio questa sua costante ricerca dell’autenticità, questo rifiuto di adattarsi, che lo ha reso così affascinante agli occhi del pubblico e così frustrante per chi doveva lavorare con lui. Joel Schumacher, regista di “Batman Forever”, lo ha descritto come “l’essere umano più psicologicamente problematico con cui abbia mai lavorato”. E probabilmente era un complimento.
Dagli esordi alla consacrazione: il metodo Kilmer
Cresciuto a Chatsworth, in una proprietà che un tempo apparteneva al cowboy star Roy Rogers (dettaglio che sembra uscito direttamente da un romanzo di formazione hollywoodiano), Val Edward Kilmer era il figlio di Eugene, un imprenditore immobiliare, e Gladys, casalinga che lui stesso descrisse come “enigmatica quanto Ingrid Bergman”. Già alle elementari studiava recitazione, sognando di emulare il suo idolo Marlon Brando – altra figura iconoclasta che avrebbe poi incontrato sul set del disastroso “L’isola perduta”.
Fu al liceo di Chatsworth che il suo talento interpretativo iniziò a brillare, condividendo le scene con una compagna di classe destinata anch’essa alla fama: Mare Winningham, che sarebbe diventata anche la sua prima fidanzata. Ma fu la Juilliard a segnare il vero inizio del suo percorso professionale: Kilmer fu uno degli studenti più giovani mai ammessi alla prestigiosa scuola di arti drammatiche di New York.
La sua formazione accademica rigorosa si scontrava però con un’indole anarchica, creando quell’affascinante contraddizione che lo ha sempre caratterizzato: un attore tecnicamente impeccabile ma istintivamente imprevedibile. David Zucker, co-regista di “Top Secret!” (1984), il film che lo lanciò nel firmamento hollywoodiano, ricorda ancora con stupore l’audizione di Kilmer, durante la quale improvvisò un’imitazione di Elvis “incredibile”, dimostrando un controllo totale del corpo e della voce che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica.
L’ascesa verso l’Olimpo hollywoodiano
Dopo il successo di “Top Secret!” e di un’altra commedia irriverente, “Real Genius” (1985), arrivò la consacrazione definitiva con “Top Gun” (1986), blockbuster che lo trasformò in sex symbol planetario nei panni di Iceman, l’arrogante rivale di Tom Cruise. Curiosamente, Kilmer sostenne sempre di non aver voluto nemmeno fare il provino per quel ruolo, ma poi, vedendo il film finito, esclamò: “Questo è un successo!” con l’entusiasmo di un bambino.
Il suo talento poliedrico gli permise di passare con disinvoltura dal realismo magico di “Willow” (1988) – dove incontrò l’attrice Joanne Whalley che sarebbe diventata sua moglie e madre dei suoi due figli – alla trasformazione totale per “The Doors” (1991), per la quale trascorse un anno intero a studiare ogni minimo gesto e intonazione di Jim Morrison, raggiungendo un livello di mimesi così impressionante che molte scene musicali del film utilizzarono la sua voce anziché registrazioni originali.
La metà degli anni ’90 segnò il picco commerciale della sua carriera con “Batman Forever” (1995), anche se lui stesso ammise che interpretare il Cavaliere Oscuro si riduceva a “presentarsi e stare dove mi dicevano di stare”, imprigionato in un costume che detestava. Lo stesso anno uscì “Heat – La sfida” di Michael Mann, quello che molti considerano il suo ultimo grande film, un neo-noir metropolitano in cui condivide il set con mostri sacri come Robert De Niro e Al Pacino.
L’arte della complessità: un talento impossibile da imbrigliare
La fama di attore “difficile” che coltivò negli anni non era del tutto immeritata. Kevin Jarre, sceneggiatore di “Tombstone” (1993), raccontò che durante una conversazione sul personaggio di Doc Holliday, quando un assistente mostrò loro una locusta colorata trovata sul set, Kilmer la prese e la mangiò senza dire una parola. Un gesto che racchiude tutta l’imprevedibilità dell’uomo.
Persino Marlon Brando, non esattamente noto per la sua docilità sul set, si esasperò a tal punto con Kilmer durante le riprese de “L’isola perduta” (1996) da rimproverarlo: “Giovane uomo, non confondere il tuo ego con la dimensione del tuo stipendio, mai”. Ironia della sorte, considerate le leggendarie bizze dell’attore di “Un tram che si chiama desiderio”.
L’eclissi e la rinascita
Dopo la separazione da Whalley nel 1995, la carriera di Kilmer iniziò una lenta discesa. Le sue scelte divennero più erratiche, e la sua reputazione da lupo solitario iniziò a pesare: “È un business molto sociale”, ammise in seguito a The Hollywood Reporter, “non ho mai cercato di essere coinvolto nella comunità”.
Mentre i ruoli da protagonista diminuivano, Kilmer dedicava più tempo alla pittura e a un progetto che gli stava particolarmente a cuore: uno spettacolo teatrale su Mark Twain, dimostrando ancora una volta il suo interesse per figure anticonformiste della cultura americana.
Poi, intorno al 2015, dopo aver ignorato un nodulo alla gola che rendeva difficile la deglutizione, si svegliò vomitando sangue. La diagnosi di cancro alla gola lo costrinse a chemioterapia e radiazioni che gli prolungarono la vita ma gli tolsero la possibilità di mangiare o parlare normalmente, costringendolo a comunicare attraverso un foro di tracheostomia.
“A volte mi sento così giù e ho il blues davvero, davvero forte”, confessò a People nel 2021. Ma reagì, grazie alla sua fede cristiana scientista e al supporto dei figli. “Non può essere fermato”, disse il figlio Jack a People. “Vuole uscire là fuori ed essere il meglio che può essere”.
E così fece, con un commovente ritorno in “Top Gun: Maverick” (2022), dove la sua breve scena con Tom Cruise, con le sue poche righe di dialogo sussurrate e migliorate digitalmente, toccò profondamente il pubblico. “Tom non avrebbe fatto Maverick senza di lui”, ha rivelato il produttore Jerry Bruckheimer. “Sapeva quanto fosse importante Val”.
L’eredità di un anticonformista
Verso la fine della sua vita, Kilmer sembrò riconsiderare la sua intransigenza: “Ero troppo serio”, ammise a The Hollywood Reporter. Confessò persino che avrebbe apprezzato maggiori riconoscimenti. Con cinque nomination agli MTV Award e quattro ai Razzie, ma nessuna candidatura all’Oscar, aveva ragione a sentirsi trascurato: “Mi piacerebbe avere più Oscar di chiunque altro”, disse. “Meryl Streep deve sentirsi piuttosto bene, sai? … Si tratta di essere amati”.
E forse questa è la grande ironia della carriera di Kilmer: ha passato decenni a resistere a ciò che Hollywood voleva da lui, solo per desiderare alla fine il suo abbraccio. Ma è proprio questa contraddizione che lo rende così affascinante, così profondamente umano nella sua imperfezione.
Il suo documentario retrospettivo del 2021, “Val”, realizzato con il figlio Jack che ne legge la narrazione, rimane una testimonianza toccante di un artista che si è sempre rifiutato di seguire le regole, anche quando questo significava sabotare il proprio successo. “Siamo così orgogliosi di lui e onorati di vedere celebrato il suo lascito”, hanno dichiarato Jack e la sorella Mercedes dopo la sua morte.
E anche Tom Cruise, al quale Kilmer una volta si riferì dicendo scherzosamente “non si può prendere in giro Tom Cruise. Poveretto”, gli ha reso un commovente tributo al CinemaCon di Las Vegas il 3 aprile, chiedendo un momento di silenzio: “Non posso davvero dirvi quanto ammiravo il suo lavoro, quanto lo consideravo come essere umano”.
E tu, caro lettore di Wonder Channel, quale interpretazione di Val Kilmer ti ha colpito di più? Eri Team Batman o Team Iceman? Credi che Hollywood non gli abbia mai dato il riconoscimento che meritava? Raccontaci nei commenti il tuo ricordo preferito di questo attore straordinario che ha vissuto secondo le proprie regole, per il meglio o per il peggio, ma sempre autenticamente.