Era il 24 settembre 1990 quando Fabrizio De André tornava a sorprenderci dopo sei lunghi anni di silenzio discografico. “Le nuvole”, dodicesimo album in studio del cantautore genovese, sbarcava nei negozi come un fulmine a ciel sereno, portando con sé tutto il peso di un’attesa che sembrava infinita. Reduce dal trionfo di “Crêuza de mä”, Faber aveva scelto di prendersi una pausa riflessiva che si sarebbe rivelata fondamentale per quello che molti considerano il suo vero testamento artistico.
Non è esagerato definire “Le nuvole” come uno dei dischi più sottovalutati del panorama cantautorale italiano. Mentre tutti aspettavano il “nuovo Crêuza”, De André servì qualcosa di completamente diverso: un caleidoscopio dialettale che spaziava dal genovese al napoletano, un affresco sociale che fotografava l’Italia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 con la lucidità chirurgica che solo lui sapeva avere.
Il disco nasceva dalla collaborazione consolidata con Mauro Pagani, co-produttore e autore delle musiche, ma introduceva anche una novità importante: Ivano Fossati entrava per la prima volta nell’universo deandreiano, firmando insieme al maestro due perle in genovese come “Mégu megún” e “‘Â çímma”. Una triangolazione creativa che avrebbe regalato momenti di pura poesia musicale.
Ma ciò che rende “Le nuvole” davvero speciale è la sua natura di disco di passaggio: non più il De André sperimentatore di “Crêuza”, non ancora quello dell’ultimo “Anime salve”. Un album sospeso, proprio come le nuvole del titolo, che cattura un momento storico irripetibile della musica italiana.
Il viaggio nei dialetti di Faber
La scelta linguistica di “Le nuvole” non è casuale ma profondamente ragionata. De André prosegue l’esplorazione dialettale iniziata con “Crêuza de mä”, ma questa volta allarga lo sguardo oltre i confini liguri. Il napoletano de “La nova gelosia”, cover di un brano popolare settecentesco di autore anonimo, dimostra come Faber sapesse rivisitare la tradizione senza mai snaturarla.
La celeberrima “Don Raffaè”, scritta a quattro mani con Massimo Bubola, resta probabilmente il brano più conosciuto dell’album. Una ballata che racconta di potere e sottomissione con quella verve narrativa che solo De André sapeva padroneggiare. Il dialetto napoletano diventa qui veicolo di denuncia sociale, strumento per raccontare dinamiche di potere che trascendono i confini geografici.
“La domenica delle salme”: il capolavoro nascosto
Se c’è un brano che da solo vale l’intero album, quello è senza dubbio “La domenica delle salme”. Non a caso si aggiudicò la Targa Tenco come canzone dell’anno, un riconoscimento che certificava la straordinaria qualità compositiva del pezzo. Si tratta di una delle denunce sociali più lucide mai scritte da De André, un affondo contro la perdita di ideali che caratterizzava quegli anni di transizione.
La costruzione musicale del brano, firmata da Pagani, crea un perfetto contrappunto alla durezza del testo. Il crescendo orchestrale accompagna l’escalation emotiva delle parole, creando quel mix esplosivo tra forma e contenuto che rendeva unico il tocco deandreiano.
L’arte della collaborazione
“La domenica delle salme” rappresenta anche il perfetto esempio di sintesi creativa tra De André e i suoi collaboratori. Pagani non si limita a vestire musicalmente le parole del cantautore, ma entra nel merito dell’architettura compositiva, creando arrangiamenti che amplificano il messaggio senza mai sovrastarlo.
“Ottocento”: quando il passato illumina il presente
Tra i brani più affascinanti dell’album spicca “Ottocento”, un affresco in stile rococò che nasconde una critica feroce ai tempi frivoli e superficiali. De André utilizza la metafora storica per parlare del presente, una tecnica narrativa che aveva già sperimentato in passato ma che qui raggiunge vette di raffinatezza straordinarie.
Il parallelismo tra il settecento storico e gli anni a cavallo tra ’80 e ’90 non è casuale: entrambi periodi di transizione sociale e culturale, momenti in cui i valori tradizionali vacillano sotto i colpi della modernità nascente. Faber si erge a menestrello di altri tempi, custode di ideali che rischiano di andare perduti.
L’eredità di un disco di passaggio
Trentacinque anni dopo, “Le nuvole” continua a stupire per la sua modernità tematica. Le dinamiche comportamentali analizzate da De André sembrano profetiche se pensiamo ai social network e alla società dell’immagine. La “società pre-digitale” fotografata nell’album conteneva già i germi di quello che sarebbe diventato il nostro presente.
Il disco funziona come ponte generazionale tra la grande stagione cantautorale degli anni ’70 e la nuova musica italiana che si stava affacciando negli anni ’90. De André dimostrava ancora una volta di saper leggere i cambiamenti epocali con quella sensibilità che lo aveva sempre contraddistinto.
Non è un caso che “Le nuvole” rappresenti il penultimo album di inediti di Faber. Un pre-testamento musicale che racchiude tutto il suo universo artistico: la poesia, la denuncia sociale, l’amore per i dialetti, la capacità di raccontare l’umanità in tutte le sue sfaccettature.
Cosa ne pensi? Credi che “Le nuvole” meriti davvero di essere rivalutato come uno dei capolavori di De André? Raccontaci nei commenti qual è il brano dell’album che più ti ha colpito e perché!



