Drammatico | 107 minuti | Italia, 2025.
Ho sempre un debole per i film italiani che provano a rinnovare generi consolidati, e devo ammettere che “Malamore” di Francesca Schirru parte con tutte le buone intenzioni. Un thriller sentimentale ambientato tra la criminalità pugliese, che vuole esplorare le relazioni tossiche piuttosto che i soliti traffici illeciti. Peccato che buone intenzioni e buona esecuzione siano due cose molto diverse.
Una storia di (mal)amore pugliese
La trama ruota attorno a Mary (Giulia Schiavo), giovane donna invischiata in una relazione tossica con Nunzio (Simone Susinna), pregiudicato della Sacra Corona Unita sposato con Carmela (Antonella Carone), capoclan che gestisce gli affari mentre lui è in carcere. Quando Mary incontra Giulio (Simon Grechi), il nuovo istruttore di equitazione del maneggio che frequenta, trova finalmente il coraggio di sognare una vita diversa.
Ma come sappiamo dai film di questo genere, uscire da certe situazioni non è mai facile. Michele (Antonio Orlando), amico d’infanzia di Mary e braccio destro di Nunzio, prova a dissuaderla. Il risultato? Una spirale di vendette e violenze che metterà tutti a rischio.
L’ambizione supera la realizzazione
Guardando “Malamore” ti rendi conto subito che è un film che divide il pubblico: c’è chi si lascia coinvolgere dal ritmo sostenuto e dalle tematiche trattate, e chi invece rimane deluso dall’esecuzione complessiva. Il film ha momenti di buona tensione alternati a passaggi che sembrano più ingenui che efficaci.
Schirru dimostra di avere idee interessanti ma fatica a metterle in pratica con la necessaria maturità cinematografica. È il classico caso di un’opera prima che promette più di quanto riesca a mantenere.
Un cast in cerca di personalità
Il problema principale del film è proprio nella direzione attoriale. Giulia Schiavo ci prova, ma il personaggio di Mary oscilla tra determinazione e vittimismo senza trovare una sua vera identità. Simone Susinna porta fisicità al ruolo del criminale possessivo, ma rimane troppo ancorato agli stereotipi del genere senza riuscire a uscire dai cliché.
Antonella Carone (nota al pubblico più giovane per Perfidia nei film dei Me Contro Te) si destreggia meglio nel ruolo della capoclan, portando una credibilità che manca ad altri interpreti. Domenico Fortunato è forse l’unico che riesce a essere efficace soprattutto nei suoi silenzi, dimostrando che a volte nel cinema meno è meglio.
Estetica patinata, sostanza che manca
Dal punto di vista tecnico, il film mostra tutti i limiti di un’opera prima troppo ambiziosa. La fotografia patinata e l’uso eccessivo dei droni creano un effetto cartolina che stride con la durezza della storia che si vorrebbe raccontare.
È evidente il tentativo di richiamare l’estetica di “Gomorra”, ma la colonna sonora rap e le scelte stilistiche finiscono per risultare déjà vu invece che innovative. Il risultato è un film che scimmiotta troppo gli stilemi del genere senza trovare una sua voce originale.
Tematiche interessanti, sviluppo insufficiente
Il cuore del film – l’esplorazione delle relazioni tossiche nel contesto della criminalità organizzata – è indubbiamente interessante. Schirru prova a raccontare come la mascolinità tossica si manifesti non solo nei rapporti amorosi ma anche nelle amicizie, e come le donne in questi contesti diventino pedine degli uomini che le circondano.
L’approccio umano invece del solito focus sui traffici illeciti poteva essere la carta vincente, ma l’esecuzione non regge il peso dell’ambizione. Il film fatica a tenere le fila di tutti i personaggi, lasciando quelli secondari in ombra o concedendo loro solo qualche assolo che non aggiunge molto alla narrazione principale.
Puglia come personaggio
Va riconosciuto al film di aver saputo sfruttare bene le location pugliesi – da Brindisi a Francavilla Fontana, da Ostuni all’Alto Salento – che non fanno solo da sfondo ma diventano parte integrante della narrazione. Le riprese nel porto di Costa Morena Est e sul lungomare Regina Margherita conferiscono autenticità visiva al racconto.
Il ritmo che non convince
Uno dei problemi più evidenti di “Malamore” è il ritmo narrativo incostante. Il film alterna momenti di buona tensione a passaggi che si trascinano, perdendo quella suspense che sarebbe essenziale per un thriller di questo tipo. La sensazione è che il materiale narrativo fosse sufficiente per un lungometraggio più breve e incisivo.
Il verdetto finale
“Malamore” è il classico film che ti lascia con sentimenti contrastanti. Ha buone intenzioni, tocca tematiche importanti e mostra scorci di un Sud Italia cinematograficamente interessante. Ma l’esecuzione non è all’altezza delle ambizioni, e la sensazione è quella di aver visto una versione semplificata e meno riuscita di storie già raccontate meglio altrove.
È un esordio che fa ben sperare per il futuro di Francesca Schirru, a patto che riesca a trovare maggiore equilibrio tra le sue visioni autoriali e le necessità narrative del genere che ha scelto di esplorare. Il film intrattiene senza annoiare, come direbbero alcuni, ma difficilmente rimarrà impresso nella memoria.
La Recensione
Malamore (2025)
Malamore è l'opera prima di Francesca Schirru che tenta di rinnovare il crime italiano concentrandosi sulle relazioni tossiche invece che sui traffici illeciti. Nonostante buone intenzioni e tematiche interessanti, il film soffre di una regia ancora acerba, un cast non sempre convincente e un'estetica che scimmiotta troppo i modelli di riferimento senza trovare una voce originale.




