C’è chi dice che le spie migliori sono quelle che sbagliano. Che mentono, inciampano, si feriscono, ma non smettono di vedere la verità anche quando fa male. Ecco perché la stagione 3 di Slow Horses (o, come la traduzione italiana preferisce, I ronzini) è la più bella finora: perché racconta il momento in cui il dolore e la disillusione diventano motore morale, non solo trama. È la stagione del passato che ritorna, del rimorso che si fa azione, e di un uomo — Sean Donovan — che trasforma la vendetta in un test per tutto il sistema MI5. Ti porto dentro la storia, dall’inizio.
Istanbul: l’amore, la perdita, la ferita che apre la stagione
Si parte lontano da Londra, tra le strade polverose e affollate di Istanbul. Una coppia di agenti britannici vive una falsa normalità: Sean Donovan e Alison Dunn. Lui è un ex militare diventato agente operativo, lei è più giovane, lucida, coraggiosa. Stanno insieme, ma nel loro mondo l’amore è sempre una copertura. Alison ha scoperto qualcosa che non avrebbe dovuto trovare: un file segreto chiamato Footprint, pieno di prove che mostrano come il MI5 abbia nascosto operazioni sporche, corruzione e accordi sotto banco.
Vuole denunciare tutto. Sean la avverte che non è sicuro, che certe verità non vengono premiate. Poco dopo, Alison muore in un “incidente” d’auto. Ma Sean sa che non è stato un incidente. È stata eliminata. Da lì inizia tutto: la sua missione personale, il suo piano, la sua vendetta.
Il ritorno a Londra
Quando torniamo in Inghilterra, i ronzini vengono catapultati in una nuova crisi. Catherine Standish, la memoria vivente di Slough House, viene rapita. E il rapitore è proprio Sean Donovan. Non è un gesto casuale. Lui sa che Catherine conosce troppi segreti del MI5, troppi legami tra Lamb e il passato. La vuole come chiave di accesso al file Footprint, per costringere il sistema a confessare i suoi peccati.
Jackson Lamb capisce che dietro quel rapimento non c’è un gruppo terroristico, ma un uomo che conosce bene la macchina dello spionaggio, forse meglio di chiunque altro. Un ex-insider. Un fantasma tornato a bussare alla porta di casa.
Sean Donovan: l’antagonista che non riesci a odiare
Donovan non è un cattivo. È un uomo che ha perso tutto per colpa delle persone che serviva. Non combatte per distruggere il sistema, ma per costringerlo a dire la verità. Quando parla con Catherine, non c’è odio cieco, ma dolore puro. Le racconta di Alison, del file, di come nessuno abbia mai pagato per quello che è successo. Vuole sapere se lei, una persona onesta, avrebbe fatto lo stesso.
È in quelle conversazioni che la stagione tocca il suo punto più alto: la linea tra giustizia e vendetta diventa invisibile. E tu, spettatore, non sai più da che parte stare.
River Cartwright e la crescita del vero eroe
River, il giovane agente caduto in disgrazia, è quello che cambia di più. Era partito come un ragazzo troppo impulsivo, costantemente punito per errori di ingenuità. Ma in questa stagione è lui a connettere i fili. Capisce che Donovan è un ex agente, che il rapimento di Catherine è solo la punta dell’iceberg, e che dentro il MI5 c’è qualcuno che vuole insabbiare tutto.
Disobbedisce agli ordini, si mette contro la stessa Diana Taverner, rischia la carriera e la vita. Eppure le sue mosse, per quanto avventate, lo portano sempre più vicino alla verità. Quando capisce che la morte di Alison non è stata un caso, tutto cambia anche per lui: non è più un ronzino. È un agente vero, nel senso più umano e meno eroico del termine.
Jackson Lamb, il cinico che protegge
Gary Oldman continua a essere il cuore sporco della serie. Lamb non cambia stile: fuma, suda, insulta tutti. Ma qui qualcosa si incrina. Il rapimento di Catherine lo tocca in modo profondo, quasi paterno. Non mostra mai tenerezza, ma agisce con la rabbia e la lucidità di chi sa che, stavolta, la posta in gioco non è una missione fallita, ma la sopravvivenza di chi gli ricorda chi era prima del cinismo.
Quando capisce che Donovan non è un fanatico ma una vittima del sistema, la linea tra nemico e alleato si fa sottile. E Lamb, il maestro della menzogna, è costretto a confrontarsi con una verità che preferirebbe ignorare: il MI5 non è una casa, è una trappola.
Catherine Standish, la coscienza del gruppo
Catherine è il punto fermo, la presenza silenziosa che tiene insieme tutto. Durante il suo rapimento non è mai davvero una vittima: è lucida, intelligente, consapevole. Dialoga con Donovan come se volesse salvarlo da se stesso. Sa che lui ha ragione sul fondo, ma anche che la sua guerra lo consumerà.
Catherine è l’unica che capisce fino in fondo cosa significa “proteggere la verità”. Non distruggerla, non venderla, ma custodirla finché non serve davvero. Il suo rapporto con Lamb in questa stagione è quasi familiare, pieno di parole non dette. E quando tornerà a Slough House, nulla sarà più come prima.
Diana Taverner e il lato oscuro del potere
Diana è la mente fredda e tagliente del MI5. Ha capito tutto prima degli altri: chi ha tradito, chi copre chi, e quanto il danno possa estendersi. Ma il suo obiettivo non è la giustizia: è la sopravvivenza del servizio. È disposta a sacrificare chiunque, perfino la verità, pur di evitare che il sistema crolli.
La tensione tra lei e Lamb è uno dei fili più forti della stagione. Due giocatori di scacchi che si odiano e si rispettano, due persone che sanno che senza l’altro il caos vincerebbe. Le loro conversazioni, sempre brevi e velenose, sono pura dinamite.
Il finale: verità bruciate e ferite aperte
L’ultimo episodio è una corsa disperata. Donovan tenta di consegnare il file Footprint ai giornalisti. I ronzini e River cercano di fermarlo prima che qualcuno muoia. Catherine viene liberata, ma il prezzo è altissimo. Lamb recupera il file, lo brucia davanti a Diana, ma non prima di averne fatta una copia segreta.
Donovan muore, ma non come un cattivo sconfitto: muore come un uomo che non ha mai smesso di credere che dire la verità valesse più della vita. Il MI5 ne esce ammaccato, sporco, ma ancora in piedi. E i ronzini, nel silenzio, capiscono che la giustizia non arriva mai tutta insieme: arriva a pezzi, quando sei disposto a pagarla di persona.
Perché è la più bella
Perché è la più umana. Perché ogni personaggio, anche il più secondario, ha un peso. Perché il dolore non è un effetto narrativo ma la conseguenza logica di vite vissute nel buio. Perché i dialoghi sono taglienti, ma lasciano intravedere una malinconia sincera. E perché Sean Donovan, con la sua ossessione e il suo amore perduto, è il primo vero specchio del mondo che Slow Horses racconta: un posto dove le spie non difendono la patria, ma cercano di non perdersi del tutto.
La stagione 3 è quella in cui i ronzini diventano persone vere, non pedine. Quella in cui capisci che la sporcizia di Slough House non è un castigo, ma un rifugio. Quella in cui l’errore non è più una condanna, ma l’unico modo rimasto per dire la verità.




