Il mondo del cinema indipendente ha trovato un nuovo caso di studio con “Plainclothes”, il debutto alla regia di Carmen Emmi che ha conquistato il 79% di gradimento su Rotten Tomatoes (su 39 recensioni per ora) ma continua a dividere la critica specializzata. Tom Blyth, reduce dal successo di “Hunger Games: La ballata dell’usignolo e del serpente”, si cimenta in un ruolo completamente diverso che potrebbe segnare una svolta nella sua carriera artistica, anche se non necessariamente nel verso giusto.
Il film, presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival il 26 gennaio 2025, affronta uno dei capitoli più bui della storia americana recente: le operazioni di polizia sotto copertura degli anni ’90 volte ad arrestare uomini gay attraverso operazioni di adescamento. Una premessa che sulla carta promette riflessioni profonde, ma che rischia di cadere nella trappola del messaggio didascalico tanto caro al cinema contemporaneo.
Ambientato a Syracuse nel 1997, “Plainclothes” racconta la storia di Lucas, un giovane poliziotto interpretato da Blyth che riceve l’incarico di attirare e arrestare uomini gay nei bagni di un centro commerciale. La sua vita si complica quando si ritrova emotivamente coinvolto con Andrew, interpretato da Russell Tovey, uno dei suoi obiettivi. Una trama che, pur partendo da eventi reali, sembra seguire fin troppo pedissequamente il manuale del “cinema sociale” degli ultimi anni.
La distribuzione negli Stati Uniti è affidata a Magnolia Pictures & Magnet Releasing, con uscita cinematografica prevista per il 19 settembre 2025. Per quanto riguarda l’Italia, al momento non sono state ancora annunciate date ufficiali di distribuzione, forse un segno che anche i distributori italiani nutrono qualche dubbio sulla ricettività del pubblico nostrano verso l’ennesimo “film importante”.
Il rischio del politically correct cinematografico
Russell Tovey, veterano della rappresentazione LGBTQ+ sullo schermo, porta la sua esperienza maturata in serie come “Looking” e “Years and Years”, ma c’è da chiedersi se la sua presenza non sia più una scelta di casting “sicura” che una necessità artistica. L’attore britannico sembra ormai specializzato in ruoli che lo confermano come volto ufficiale della cinematografia queer, un po’ come accade con certi attori sempre scelti per ruoli “etnicamente corretti”.
Tom Blyth, dal canto suo, affronta una sfida interpretativa che potrebbe rivelarsi più rischiosa di quanto sembri. Passare dal villain adolescenziale di Hunger Games a un poliziotto in crisi di identità sessuale richiede una versatilità che l’attore inglese non ha ancora dimostrato di possedere. Il rischio è quello di una performance troppo studiata, calibrata più sulle aspettative politiche che sulla verità del personaggio.
Il regista Carmen Emmi ha scelto un approccio visivo particolare, utilizzando riprese in stile VHS per rappresentare i ricordi del protagonista. Una scelta che potrebbe sembrare innovativa ma che in realtà riflette una certa nostalgia per gli anni ’90 tipica del cinema millennial, spesso più interessato all’estetica vintage che alla sostanza narrativa.
La sindrome del “film necessario”
Nonostante l’alto punteggio su Rotten Tomatoes, la critica specializzata si mostra più cauta, e forse ha le sue ragioni. Jason Gorber di Collider ha criticato la regia definendola “pretenziosa e poco coinvolgente”, un giudizio che colpisce nel segno quando si parla di cinema che si vuole “impegnato” ma finisce per essere autoreferenziale.
Il problema di molte produzioni contemporanee LGBTQ+ è quello di essere giudicate più per le buone intenzioni che per la qualità cinematografica effettiva. “Plainclothes” sembra soffrire di questa sindrome: è un “film importante” perché affronta tematiche sociali, ma questo non lo rende automaticamente un buon film.
La sceneggiatura di Emmi sembra seguire un template narrativo fin troppo prevedibile: protagonista etero che scopre la propria sessualità, conflitto tra dovere e desiderio, redenzione finale attraverso l’accettazione di sé. Una formula che ha funzionato in passato ma che oggi rischia di apparire stanca e ripetitiva.
Quando il messaggio sopravanza la storia
“Plainclothes” si basa su eventi realmente accaduti, ma questo non dovrebbe essere un salvacondotto per giustificare eventuali debolezze narrative. Il cinema basato su “storie vere” spesso viene trattato con i guanti bianchi dalla critica, come se la verità storica fosse garanzia automatica di qualità artistica.
Il film arriva in un momento in cui Hollywood sembra ossessionata dal revisionismo storico e dalla necessità di “fare i conti con il passato”. Una tendenza lodevole nei principi, ma che spesso produce opere più interessate a lanciare messaggi che a raccontare storie coinvolgenti.
La scelta di concentrarsi sugli anni ’90 potrebbe sembrare coraggiosa, ma in realtà è abbastanza sicura: abbastanza lontani da sembrare “storia”, abbastanza vicini da risultare ancora rilevanti. Un periodo perfetto per quel tipo di nostalgia critica che va tanto di moda nel cinema contemporaneo.
La vera domanda è se “Plainclothes” riuscirà a essere qualcosa di più di un esercizio di stile politically correct. Riuscirà Tom Blyth a convincere in un ruolo così lontano dal suo comfort zone? E soprattutto, il film avrà qualcosa di nuovo da dire o si limiterà a ripetere messaggi che il pubblico ha già sentito mille volte?
Il rischio è quello di un’opera didascalica che predica ai convertiti invece di conquistare nuove menti. Il cinema LGBTQ+ ha prodotto capolavori quando ha smesso di voler educare a tutti i costi e ha iniziato semplicemente a raccontare storie umane universali.
E tu, cosa ne pensi? Credi che il cinema contemporaneo sia troppo ossessionato dal politically correct? Pensi che “Plainclothes” riuscirà a essere più di un semplice “film importante”? Tom Blyth ha le carte in regola per questo salto di qualità? Condividi la tua opinione senza peli sulla lingua nei commenti!


