La battaglia più feroce della musica contemporanea non si combatte sui social media o nelle classifiche streaming, ma sui palcoscenici di tutta Italia. Da una parte abbiamo l’autotune che dilaga come un virus digitale, dall’altra i nostalgici della musica “vera” che gridano al sacrilegio. Ma chi ha davvero ragione in questa guerra generazionale che sta spaccando in due il panorama musicale italiano?
Sanremo 2025 ha segnato uno spartiacque definitivo: per la prima volta nella storia del festival, Carlo Conti ha dato ufficialmente il via libera all’uso dell’autotune come “effetto vocale”. Una decisione che ha scatenato polemiche feroci e che simboleggia perfettamente il momento che sta attraversando la musica italiana. Da un lato artisti come Irama e Fedez che sfruttano massicciamente la correzione digitale, dall’altro veterani come Giorgia che ironicamente dichiarava: “Ho chiesto di cantare con l’autotune a Sanremo e si sono messi a ridere tutti”.
Il problema non è solo tecnico, è culturale. Stiamo assistendo a una mutazione genetica della musica italiana, dove l’immagine conta più della sostanza e gli algoritmi di Instagram pesano più delle corde vocali. La vittoria di Olly con “Balorda nostalgia” – un brano che molti critici hanno definito “imbarazzante” per l’uso eccessivo dell’autotune – rappresenta il simbolo di questa trasformazione. Una generazione di adolescenti ha premiato attraverso il televoto un artista che, secondo gli esperti del settore, “oggettivamente non sa cantare senza autotune”.
Il grande inganno: quando la tecnica nasconde l’incapacità
L’autotune, nato nel 1997 dall’ingegno di Andy Hildebrand per correggere l’intonazione, è diventato la stampella digitale su cui si reggono carriere intere. Quello che doveva essere uno strumento di post-produzione si è trasformato nell’elemento portante di performance dal vivo che, senza di esso, crollerebbero miseramente.
Durante un concerto di Sfera Ebbasta del luglio 2023, l’autotune ha smesso di funzionare per qualche secondo durante una canzone. Diversi fan hanno registrato un video con il proprio smartphone, rivelando una voce “modificata e in alcuni tratti metallica”. Un episodio che ha fatto il giro dei social, mostrando impietosamente la differenza tra realtà e finzione digitale.
Il caso più emblematico rimane quello di Holden ad Amici 23, criticato aspramente per l’utilizzo massiccio dell’autotune anche nella sua interpretazione di “Bella d’estate” di Pino Mango. Molte critiche nascevano dal fatto che Amici, essendo una scuola, dovrebbe insegnare a cantare senza strumenti artificiali che possono nascondere problemi di intonazione.
La sindrome dell’immagine perfetta
Il fenomeno non riguarda solo la correzione vocale, ma una filosofia completamente diversa di fare musica. Dove una volta contava la capacità di emozionare con la voce nuda, oggi prevale l’estetica del video, l’outfit giusto, l’angolazione perfetta per TikTok. Artisti come Madame hanno fatto dell’autotune un marchio di fabbrica, utilizzandolo sistematicamente anche in brani sacri come “Prisencolinensinainciusol” di Celentano, scatenando indignazione tra i puristi.
La differenza generazionale è evidente: mentre gli anni ’80 e ’90 hanno prodotto voci iconiche come Mia Martini, Fiorella Mannoia, Anna Oxa, oggi assistiamo all’ascesa di performer che dipendono completamente dalla tecnologia digitale. Anna Oxa fu considerata dalla stampa tedesca la migliore voce femminile europea degli anni ’80, un riconoscimento basato su talento puro, non su elaborazioni digitali.
L’età dell’oro perduta: quando i cantanti sapevano davvero cantare
Gli anni ’80 e ’90 rappresentano l’ultimo bastione della musica italiana autentica. Era l’epoca in cui Fiorella Mannoia valorizzava con le sue straordinarie qualità vocali canzoni di molti autori e veniva considerata una delle regine della canzone italiana di qualità. Un periodo in cui il talento vocale era prerequisito indispensabile, non optional da nascondere dietro effetti digitali.
Gianna Nannini, definita “la più grande cantante e cantautrice rock italiana contemporanea”, costruiva i suoi successi su una voce potente e riconoscibile, capace di trasmettere emozioni autentiche senza bisogno di correzioni. La sua “Fotoromanza” e “Bello e impossibile” sono diventate pietre miliari proprio per l’intensità vocale genuina.
Oggi invece assistiamo al paradosso di artisti che live non riescono a riprodurre quello che registrano in studio, creando un’esperienza dal vivo frustrante per il pubblico che si aspetta di sentire la stessa perfezione digitale degli album. È l’equivalente musicale del filtro Instagram: bello da vedere online, deludente nella realtà.
Il confronto impietoso con il passato
La differenza qualitativa è abissale quando confrontiamo le performance dal vivo. Whitney Houston era una soprano tanto potente quanto dolce e la sua “I Will Always Love You” dimostrava feeling e perfezione tecnica pura, trasformando le emozioni senza alcun aiuto tecnologico.
Oggi invece abbiamo la vittoria di Olly che è sì leader delle classifiche ma che ha limiti vocali evidenti, corretti da uno strumento che viene abusato in maniera imbarazzante. Un capovolgimento totale dei valori: prima si diventava famosi perché si sapeva cantare, ora si canta (male) perché si è famosi.
La trappola commerciale: quando il marketing supera il talento
L’industria musicale italiana ha abbracciato completamente la logica del “content over substance”. Quello che conta non è più la capacità vocale, ma la capacità di generare visualizzazioni su YouTube e engagement sui social. Un circolo vizioso dove l’autotune non è solo accettato, ma necessario per mantenere gli standard estetici richiesti dal mercato digitale.
La conseguenza diretta è una generazione di “artisti” che non hanno mai imparato davvero a cantare. Perché sforzarsi di sviluppare tecnica vocale quando un software può correggere ogni imperfezione? È come imparare a guidare sapendo di avere sempre il pilota automatico: comodo, ma quando si spegne la tecnologia, rimane solo l’inadeguatezza.
Il vero dramma è che questo fenomeno si sta normalizzando anche nel live. Concerti dove l’autotune è onnipresente trasformano l’esperienza musicale in una performance teatrale dove la finzione sostituisce l’autenticità. Il pubblico, spesso inconsapevole, applaude una versione artificiosa di quello che dovrebbe essere il momento più puro della musica: l’incontro diretto tra artista e ascoltatore.
L’effetto domino sulla nuova generazione
I giovani aspiranti cantanti crescono pensando che l’autotune sia normale, anzi necessario. Programmi come Amici, che dovrebbero essere scuole di talento, diventano fucine di dipendenza tecnologica. Le critiche a Holden nascevano proprio dal fatto che Amici dovrebbe insegnare a cantare senza strumenti artificiali.
Il risultato è una desertificazione del talento vocale italiano, dove le nuove leve non sviluppano mai le competenze di base perché sanno di poter contare sulla correzione digitale. È come se i calciatori smettessero di allenarsi sapendo di poter sempre truccare i risultati delle partite.
La resistenza dei puristi: chi combatte ancora per l’autenticità
Non tutti hanno ceduto alla tentazione digitale. Artisti come Giorgia continuano a rappresentare la vecchia scuola, dove il talento vocale rimane il fulcro dell’espressione artistica. La sua richiesta ironica di usare l’autotune a Sanremo nascondeva una critica feroce al sistema che ha abbassato gli standard qualitativi.
Anche nel pubblico cresce la consapevolezza della differenza. Le polemiche sui social dopo episodi come quello di Sfera Ebbasta dimostrano che molti ascoltatori riconoscono l’artificialità e la rifiutano. È una battaglia culturale tra chi accetta la mediocrità digitalizzata e chi pretende ancora l’eccellenza umana.
La questione diventa ancora più urgente pensando al futuro: cosa accadrà quando questa generazione di “cantanti” si troverà a rappresentare l’Italia in contesti internazionali dove l’autotune è limitato o vietato? Il caso Eurovision è emblematico: molti artisti italiani farebbero fatica a gareggiare in un contesto dove la correzione vocale come “correttore” non è ammessa.
La musica italiana rischia di perdere la sua identità storica, quella che ha reso celebri in tutto il mondo voci come Pavarotti, Mina, Modugno. Sostituire questa tradizione di eccellenza con l’omologazione digitale significherebbe tradire secoli di cultura musicale per inseguire trend effimeri.
L’autotune può essere uno strumento creativo interessante, ma quando diventa una necessità invece che una scelta artistica, il problema è evidente. La vera domanda non è se l’autotune sia giusto o sbagliato, ma se siamo disposti a sacrificare l’autenticità sull’altare della facilità tecnologica.
E tu, cosa ne pensi? Credi che l’autotune stia davvero impoverendo la musica italiana o è solo l’evoluzione naturale dell’arte? Preferisci l’imperfezione umana autentica o la perfezione artificiale? Raccontaci la tua opinione nei commenti!




