Il gran finale della saga più redditizia dell’horror moderno arriva nelle sale italiane e porta con sé una controversia che va ben oltre gli spaventi programmati. “The Conjuring – Il rito finale”, uscito il 4 settembre 2025 distribuito da Warner Bros. e già primo al box office italiano con oltre 75mila spettatori nel weekend di apertura, chiude definitivamente la storia cinematografica di Ed e Lorraine Warren. Ma è proprio in questo epilogo che emerge il problema più grande della saga: la trasformazione di due figure controverse in santi laici del paranormale.
Il film ha debuttato con ottimi risultati commerciali in Italia, confermando l’appeal del franchise che ha generato oltre 2 miliardi di dollari a livello globale. Diretto da Michael Chaves, che aveva già preso le redini della saga da James Wan, il film si presenta come il coronamento narrativo di oltre dieci anni di cinema dell’orrore che ha saputo trovare la formula perfetta tra scares tradizionali e emotività familiare. Patrick Wilson e Vera Farmiga tornano per l’ultima volta nei panni dei demonologi più famosi del cinema, ma è proprio questa idealizzazione finale che solleva interrogativi inquietanti sulla responsabilità etica del racconto cinematografico.
La critica americana ha già sollevato dubbi pesanti sulla gestione dei personaggi reali, accusando la produzione di aver trasformato il film in una vera e propria agiografia che ignora completamente le accuse pesantissime mosse contro i Warren nella vita reale. Perché quando parli di sfruttamento, manipolazione, violenza domestica e persino abusi sessuali, forse è il caso di ripensare alla narrazione che stai costruendo. Ma andiamo per gradi e capiamo cosa non va in questo finale di saga che prometteva di essere memorabile.
Il problema del racconto acritico
Il regista Michael Chaves struttura “Il rito finale” come un testamento spirituale dei Warren, ambientato cinque anni dopo il famoso caso Arne Johnson del film precedente. La trama segue i coniugi Warren, ormai ritiratisi dall’attività investigativa per dedicarsi al mondo accademico, che vengono trascinati in un ultimo caso riguardante la famiglia Smurl negli anni ’80. Il film si basa su presunte testimonianze reali, come da tradizione della saga, ma è nella costruzione dramaturgica che emerge il vero problema.
I Warren cinematografici vengono presentati come figure guidate esclusivamente dall’altruismo e dal senso di giustizia. Quando la loro figlia Judy, interpretata dalla debuttante Mia Tomlinson, si trova in pericolo a causa dell’entità demoniaca, i genitori potrebbero facilmente metterla in salvo abbandonando la famiglia Smurl al loro destino. Invece, spinti dalla coscienza, decidono di rimanere e combattere il male fino alla fine. Una caratterizzazione eroica che suona stonata quando la confronti con le accuse reali mosse contro i Warren.
La direzione autoriale di Chaves mantiene lo stesso tono reverenziale degli episodi precedenti, ma qui il problema diventa più evidente perché stiamo parlando dell’epilogo definitivo. Non c’è più spazio per ambiguità o sfumature: i Warren vengono presentati come due dei più importanti investigatori del paranormale della storia, come recita il cartello finale del film. Una beatificazione cinematografica che ignora totalmente la realtà dei fatti.
L’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere
Secondo quanto riportato da The Hollywood Reporter nel 2017, i Warren reali sono stati accusati di sfruttamento delle famiglie vittime di presunti fenomeni paranormali, manipolazione psicologica, violenza domestica e persino abusi sessuali e pedofilia. Accuse gravissime che la produzione ha sempre scelto di ignorare, limitandosi a definire le loro azioni come vagamente “controverse” nei titoli di coda. Ma davvero possiamo parlare di semplici “controversie” quando si tratta di accuse così pesanti?
Il punto è che la vera Lorraine Warren aveva collaborato attivamente come consulente ai film precedenti fino alla sua morte nel 2019, il che aggiunge un ulteriore livello di problematicità etica alla questione. Come si può ignorare completamente la realtà quando uno dei soggetti del racconto ha avuto voce in capitolo nella costruzione della propria immagine cinematografica?
La responsabilità del cinema mainstream
James Wan, che rimane produttore esecutivo pur avendo lasciato la regia a Chaves, aveva costruito la saga su un equilibrio intelligente. I primi film si concentravano sulla forza del legame matrimoniale tra i Warren, usando la loro relazione come ancora emotiva per giustificare la sospensione dell’incredulità. Il focus rimaneva sui casi specifici e sull’abilità narrativa nel costruire tensione e spaventi efficaci.
“Il rito finale” invece punta tutto sulla celebrazione finale dei personaggi, trasformandoli in figure quasi mitologiche. La costruzione del personaggio diventa così acritica da risultare imbarazzante, soprattutto considerando che il pubblico moderno ha accesso a informazioni che vanno ben oltre la versione edulcorata proposta dal film.
Il problema non è che un film horror debba necessariamente fare i conti con la realtà storica dei suoi protagonisti. Il cinema ha tutto il diritto di rielaborare, romanzare e persino stravolgere la verità per servire una narrazione efficace. Ma quando trasformi persone reali in icone positive, ignorando completamente accuse così gravi, stai operando una revisione storica che ha implicazioni etiche precise.
Il peso della rappresentazione cinematografica
La saga di “The Conjuring” ha avuto un impatto culturale enorme, riportando l’horror soprannaturale al centro dell’interesse mainstream dopo anni di dominio zombie e slasher. La serie ha generato oltre 2 miliardi di dollari di incassi globali, creando un vero e proprio universo cinematografico che include spin-off come “Annabelle” e “The Nun”.
Questo successo ha inevitabilmente contribuito a rafforzare l’immagine pubblica dei Warren reali, trasformandoli in figure cult per intere generazioni di spettatori che li conoscono principalmente attraverso le interpretazioni di Wilson e Farmiga. La responsabilità sociale del cinema diventa quindi un fattore da considerare quando si parla di figure controverse presentate in modo acritico.
Il mancato confronto con la complessità
Quello che colpisce di più è come “Il rito finale” perda l’occasione di affrontare le contraddizioni insite nel materiale di partenza. Il film poteva facilmente costruire una narrazione più sfumata, che riconoscesse le zone grigie della realtà senza necessariamente distruggere l’efficacia del racconto horror.
Invece, la scelta autoriale è stata quella di raddoppiare la posta, presentando i Warren come figure moralmente irreprensibili guidati esclusivamente dal desiderio di aiutare il prossimo. Una semplificazione narrativa che tradisce la complessità del mondo reale e dei suoi protagonisti.
La tecnica cinematografica di Chaves è indubbiamente solida, con una fotografia che richiama i classici dell’horror anni ’80 e effetti pratici che privilegiano l’atmosfera rispetto agli spettacoli digitali. Ma tutti questi meriti tecnici non riescono a compensare il problema etico di fondo: la trasformazione di figure controverse in modelli di rettitudine morale.
Cosa pensi di questa controversia? Credi che il cinema abbia il dovere di presentare una versione più equilibrata di personaggi reali, oppure l’intrattenimento può permettersi di ignorare la realtà storica? Raccontaci la tua opinione nei commenti.




