Ho appena finito di guardare Toxic Town, una miniserie drammatica su Netflix che racconta la terribile vicenda ambientale di Corby, una piccola città a 72 miglia a nord-ovest di Londra. La storia parte nel 1984, quando la città decide di demolire le vecchie acciaierie – l’unica fonte di lavoro per la zona – e, per farlo, trasporta ad alta velocità fanghiglia tossica, di un arancione bruciato e marrone fango, che viene poi scaricata in una discarica. Il risultato? Un disastro ambientale che ha contaminato l’aria e le acque, provocando deformità in decine di neonati nati nella zona.
Questa serie, suddivisa in quattro episodi da 60 minuti ciascuno, è un viaggio attraverso la negligenza e la cupidigia del consiglio comunale, ma anche la lotta disperata delle madri e delle famiglie colpite, che hanno lottato per ottenere giustizia, portando infine a una causa legale di successo. Cioè, praticamente, è una storia cruda, intensa, e – nonostante il tono a tratti ham-fisted – ti lascia con il fiato sospeso.
Un inizio che non lascia indifferenti
La serie si apre con la presentazione dei fatti: il trasporto e lo scarico della fanghiglia tossica, un’operazione industriale che ha portato a una contaminazione diffusa e a conseguenze tragiche. Mi ha subito colpito l’immagine del fango di colore bruciato, trasportato a velocità elevata, come se si trattasse di una scena uscita da un film apocalittico. Le immagini di polvere sospesa nell’aria e il contaminarsi delle falde acquifere creano una tensione immediata, che ti fa pensare a quanto la cupidigia e la negligenza possano distruggere intere comunità.
Il documentario televisivo racconta la storia con un approccio che, seppur a tratti diretto e senza troppi giri di parole, riesce a trasmettere la gravità della situazione. Si vedono scene di madri disperate, di neonati nati con deformità, e di ambienti che sembrano essersi trasformati in un paesaggio post-apocalittico. È un’immagine cruda e sincera che ti rimane impressa, perché non si nasconde nulla dietro l’eufemismo o la retorica: la verità è lì, in faccia, e fa male.
La lotta per la giustizia
La parte più toccante della serie è senza dubbio la lotta delle madri e delle famiglie per ottenere giustizia. La protagonista, Susan McIntyre (interpretata da Jodie Whittaker), è una madre coraggiosa che scopre di essere incinta in un contesto già segnato dal dolore, quando suo figlio Connor nasce senza le dita sulla mano sinistra. Immagina: la gioia di aspettarsi un figlio si trasforma in un incubo quando la realtà si impone con brutalità. E non è solo Connor: mentre Susan è in ospedale, anche un’altra madre, Tracey Taylor (Aimee Lou Wood), dà alla luce Shelby Ann, che nasce con deformità evidenti – un orecchio storto, senza reni e con un cuore che non è del tutto completo. Una delle scene più devastanti è quella in cui Tracey, in modo quasi rituale, pulisce con polvere arrugginita la lapide del suo neonato, un gesto che parla da solo della disperazione e della tristezza che si nascondono dietro ogni numero statistico.
Questa lotta, pur essendo raccontata in maniera diretta, è intrisa di una carica emotiva che ti fa sentire la sofferenza di chi ha pagato un prezzo altissimo per l’indifferenza di un sistema. È un grido di protesta contro la mancanza di responsabilità e l’avidità che hanno causato il disastro ambientale. E, anche se la serie a volte sembra cadere in una narrazione prevedibile, questi momenti di pura umanità ti fanno capire che dietro ogni dato c’è una vita, una famiglia, una tragedia.
Il lato dei potenti: cupidigia e negligenza
Non si può non notare la denuncia aperta rivolta alle autorità locali. La serie ci presenta figure come Roy Thomas (interpretato da Brendan Coyle), il capo del consiglio comunale, ispirato al controverso Kelvin Glendenning, che con l’entusiasmo di un prestigiatore da circo promette una rinascita economica mentre schiaccia le preoccupazioni dei tecnici e dei cittadini. Ogni volta che l’ingegnere Ted Jenkins (Stephen McMillan) tenta di far emergere i pericoli legati alle tossine, i suoi rapporti vengono sistematicamente ignorati o persino bruciati, quasi come se la verità fosse un nemico da eliminare.
Il documentario mette in evidenza come, per ogni rapporto di denuncia, ci sia sempre qualcuno pronto a offrire tangenti o a reprimere la verità, creando un clima di corruzione dilagante. È una critica feroce a un sistema in cui la ricerca del profitto ha la meglio sulla salute pubblica e sul benessere delle persone. La serie non si tira indietro nel mostrare la brutalità di questo sistema, e ogni scena dedicata a queste ingiustizie ti fa rabbrividire.
Immagini e simbolismo: la forza visiva della serie
Dal punto di vista tecnico, devo dire che Toxic Town è un capolavoro visivo. La regia di Minkie Spiro non lascia nulla al caso. Ci sono scene in cui Maggie (Claudia Jessie) pulisce le finestre con una dedizione quasi ossessiva, mentre nel giardino batte la polvere dai completi di Derek (Joe Dempsie) – un gesto che, sebbene possa sembrare banale, diventa una potente metafora della lotta quotidiana contro l’inquinamento. Le inquadrature ravvicinate, che ti fanno vedere i fiumi di tossine che scorrono nei sistemi fognari, sono così intense da farti sentire il disgusto e la tristezza per la distruzione ambientale.
Il montaggio è dinamico, con tagli che ti tengono in tensione, anche se a volte rischiano di essere troppo frenetici e di farti perdere il filo della narrazione. Insomma, la cura tecnica è indiscutibile, ma c’è una certa fredda distanza nelle immagini, come se il prodotto finale volesse evitare di mostrare troppo il lato umano del dramma.
La recitazione: il cuore pulsante della serie
Il cast di Toxic Town è, senza dubbio, uno dei suoi punti di forza. Jodie Whittaker, nei panni di Susan McIntyre, è straordinaria. La sua performance trasmette tutto il dolore e la forza di una madre che lotta per far emergere la verità in mezzo alla devastazione ambientale. Ogni sguardo, ogni parola è carica di emozione. Anche Michael Socha, che interpreta Peter, il marito di Susan, offre una performance solida, catturando quel tormento interiore di un uomo diviso tra il desiderio di un futuro migliore e la consapevolezza di un presente distrutto dalla negligenza.
Joe Dempsie è magistrale nei panni di Derek, un personaggio che rappresenta il lato oscuro di una vita segnata dalla corruzione industriale, mentre Robert Carlyle in veste di Sam Hagen, il consigliere onesto che diventa whistleblower, porta una dose di integrità in un sistema altrimenti corrotto. Brendan Coyle, nel ruolo di Roy Thomas, trasforma il suo personaggio in una caricatura quasi grottesca, ma in questo contesto la caricatura funziona: Thomas diventa il simbolo della cupidigia e dell’indifferenza, un vero e proprio antagonista del nostro dramma.
Il contesto storico e sociale: una tragedia che dura nel tempo
Il dramma ambientale di Corby ha radici profonde: tutto ha avuto inizio nel 1984, quando le fabbriche d’acciaio, cuore pulsante dell’economia locale, sono state demolite per fare spazio a nuove opportunità economiche. Il metodo usato per demolire queste fabbriche – trasportare fanghiglia tossica e scaricarla in discarica – ha creato un disastro che ha segnato la salute di intere generazioni. I danni ambientali sono evidenti in ogni angolo di Corby: aria inquinata, acque contaminate e, soprattutto, la tragedia umana dei neonati nati con deformità.
Il documentario racconta questo processo con precisione cronologica, mostrando come la negligenza e l’avidità del consiglio comunale abbiano avuto conseguenze disastrose che si sono protratte per decenni. È una storia di lotte e di resistenza, in cui madri e famiglie hanno combattuto per ottenere giustizia, fino a vincere una causa legale che ha portato a una compensazione di 14,6 milioni di sterline. Un risultato che, sebbene tardivo, dimostra che la verità, per quanto soffocata, alla fine riesce a venire a galla.
Stile narrativo e ritmo: tra tagli decisi e respiro emotivo
Parlando di stile, Toxic Town utilizza una tecnica narrativa che mescola immagini forti, close-up intensi e un montaggio che alterna momenti di grande tensione a sequenze quasi meditativi. Le scene in cui si vedono i fiumi di tossine che scorrono nei sistemi fognari sono accompagnate da una colonna sonora inquietante, dominata da un violino che graffia note dissonanti. Queste scelte tecniche danno alla serie una qualità quasi artistica, come se ogni immagine volesse raccontare una storia di dolore e distruzione.
Tuttavia, devo ammettere che il ritmo della narrazione a volte risulta un po’ troppo “tagliente”. Ci sono momenti in cui il montaggio diventa così rapido da far perdere il filo della storia, e i dialoghi, scritti da Jack Thorne, appaiono a tratti troppo drammatici e forzati. È come se ogni personaggio dovesse urlare le proprie emozioni, senza lasciare spazio a un silenzio che parli da sé. Un effetto che, pur contribuendo a creare una forte carica emotiva, rischia di diventare eccessivo e di sottrarre alla storia il suo naturale respiro.
Conclusioni: Un dramma ambientale che ti scuote e ti fa riflettere
Alla fine, Toxic Town è una serie che, pur non offrendo innovazioni narrative rivoluzionarie, riesce a raccontare una storia di dolore, lotta e giustizia ambientale con una forte carica emotiva. È un racconto che non scappa dalla realtà: la corruzione, la cupidigia e la negligenza sono mostrati senza mezzi termini, e le testimonianze delle madri e dei cittadini colpiti ti toccano nel profondo.
Il cast è eccezionale e, grazie alle interpretazioni di attori come Jodie Whittaker, Michael Socha, Joe Dempsie e Robert Carlyle, la serie riesce a dare vita a personaggi che, nonostante siano a tratti stereotipati, trasmettono una genuina umanità. La regia di Minkie Spiro e il montaggio, pur con i loro difetti, creano un impatto visivo e sonoro che ti fa quasi sentire l’odore della tossina nell’aria e il dolore di chi ha perso tutto a causa dell’indifferenza.
Certo, la narrazione rimane nei confini di un formato convenzionale: i flashback sono usati in maniera standard, e la storia segue un percorso lineare che non osa rischiare troppi colpi di scena. Ma questo, in un certo senso, è anche il punto di forza: il documentario non tenta di stravolgere il genere, ma ti presenta una denuncia potente e, seppur a tratti fredda, estremamente realistica. È un invito a non chiudere gli occhi di fronte a ciò che accade nelle nostre comunità, e a riconoscere che la verità può essere tanto devastante quanto indispensabile.
In definitiva, Un Amore a Copenhagen – titolo che, pur essendo fuorviante, racchiude il dramma ambientale di Corby – è una serie che ti farà riflettere profondamente sul prezzo del progresso e sulla tragica ignoranza di chi mette il profitto sopra tutto. Se ami le storie vere, quelle che non temono di mostrare la bruttezza della realtà, questa serie è da vedere. Però, se cerchi una narrazione che ti sorprenda continuamente, potresti rimanere un po’ deluso.
E tu, cosa ne pensi? Lascia un commento qui sotto e raccontami la tua esperienza: ti ha colpito il modo in cui la serie denuncia la corruzione ambientale e l’avidità dei potenti, o pensi che non abbia osato andare oltre i soliti cliché? La tua opinione è davvero importante!
La Recensione
Toxic Town
Toxic Town racconta la devastante storia ambientale di Corby con immagini forti e testimonianze toccanti; una denuncia potente ma narrativamente convenzionale, che non osa innovare oltre i canoni tradizionali.
PRO
- Critica forte alla corruzione e negligenza ambientale.
- Riprese e simbolismi che colpiscono visivamente.
CONTRO
- La struttura non osa innovare.
- Alcune sequenze si trascinano senza sviluppo.