Netflix ha appena rilasciato “Untold: L’ascesa e la caduta di Brett Favre“, l’ultimo capitolo della serie documentaristica Untold, e posso dirti subito che si tratta del peggior tentativo di giornalismo sportivo mai visto sulla piattaforma. Come esperto di produzioni televisive sportive e storytelling documentaristico, raramente ho assistito a un assassinio mediatico così spudorato mascherato da inchiesta giornalistica.
La regista Rebecca Gitlitz, reduce dal documentario sulla Nazionale femminile di calcio USA (che nessuno ha mai visto), ha confezionato un attacco diffamatorio da 60 minuti che tradisce completamente i canoni etici del documentarismo sportivo. E fidati, quando dico che è un disastro, parlo con cognizione di causa.
La struttura narrativa: un manuale su come NON fare un documentario
Dal punto di vista della costruzione narrativa, questo documentario commette tutti gli errori possibili. Invece di offrire un ritratto completo di una delle figure più iconiche della NFL, Gitlitz decide di concentrarsi esclusivamente su due controversie: lo scandalo sexting con Jenn Sterger del 2008 e il recente scandalo dei fondi welfare del Mississippi.
La scelta editoriale è già di per sé problematica dal punto di vista della storytelling structure. Quando realizzi un documentario su una leggenda dello sport con una carriera ventennale, ridurre tutto a due episodi controversi è come voler raccontare Hitchcock parlando solo dei suoi problemi con gli attori. È reductive storytelling al suo peggio.
Il cast dei comprimari: quando la credibilità va a farsi benedire
La scelta dei talking heads rivela immediatamente le intenzioni propagandistiche del documentario. Mike Vick – sì, proprio lui, quello condannato per combattimenti clandestini tra cani – viene utilizzato come voce morale per criticare il presunto trattamento preferenziale riservato a Favre.
L’ironia drammatica è così evidente che sembra quasi una parodia involontaria. Vick, che ha ammesso di aver ucciso almeno 6 cani per impiccagione, percosse e annegamento, parla di “sistema truccato” dopo aver scontato solo 18 mesi di prigione. È come se Al Capone tenesse una conferenza sull’etica fiscale.
Non bastasse, la produzione schiera anche Jemele Hill, ex ESPN, per amplificare il narrative racial profiling. La combinazione Vick-Hill è il manifesto programmatico di questo documentario: trasformare una questione giudiziaria complessa in una battaglia ideologica su razza e privilegio.
Lo scandalo Sterger: giornalismo da tabloid travestito da inchiesta
La prima storyline si concentra sul caso Jenn Sterger, ex sideline reporter dei New York Jets. Il documentario dedica la maggior parte del runtime a questa vicenda, mostrando messaggi vocali e screenshot di presunti messaggi di Favre.
Dal punto di vista della verifica delle fonti, qui emergono le prime crepe nella credibilità del documentario. Mentre messaggi e chiamate sembrano autentici, la famosa foto compromettente risulta inviata da un account “BFavre@tmail.com“ – un dettaglio che qualsiasi fact-checker degno di questo nome avrebbe approfondito.
Le contraddizioni di Sterger che nessuno vuole vedere
La narrative structure presenta Sterger come vittima assoluta, ma emerge una discrepanza cronologica significativa. Lei sostiene di non aver mai incontrato Favre, ma le riprese d’archivio mostrano chiaramente almeno due occasioni in cui si sono trovati nello stesso ambiente.
Un bodyguard/handler racconta persino di un episodio nel tunnel pre-partita. Questi buchi narrativi vengono completamente ignorati dalla regia, in barba ai principi base del documentary fact-checking.
Il caso Mississippi: complessità legale ridotta a slogan
La seconda parte affronta lo scandalo dei fondi welfare del Mississippi, questione legalmente complessa che coinvolge politici locali e redistribuzione di fondi pubblici. Favre è accusato di aver ricevuto denaro destinato al welfare per progetti come la palestra di pallavolo dell’Università del Mississippi Sud, dove gioca sua figlia.
Semplificazione pericolosa di questioni legali complesse
Il documentario riduce tutto al mantra “Brett Favre ha rubato i soldi ai poveri“, ignorando completamente la complessità giuridica del caso. Non vengono analizzate le responsabilità politiche, i meccanismi di distribuzione dei fondi, o il framework legale dell’intera vicenda.
Questa oversimplification è tipica del true crime da streaming, dove narrative convenience prevale sempre su accuracy giornalistica. Durante le riprese del testimonianza al Congresso, invece di focalizzarsi su aspetti legali sostanziali, la regia si concentra sui fan che cercano autografi, reinforzando il narrative del “privilegio del celebrità“.
La figura paterna: psicologia spicciola e amateur analysis
In una delle sequenze più discutibili, il documentario dedica 90 secondi a Irv Favre, padre di Brett, dipingendolo come figura fredda e severa che avrebbe psicologicamente influenzato il figlio verso i suoi presunti comportamenti devianti.
È psicologia da bar sport travestita da analisi comportamentale. Peggio ancora, omettono completamente la partita leggendaria che Brett giocò il giorno dopo la morte del padre – uno dei momenti più iconici della storia NFL. Questa omissione deliberata rivela l’agenda editoriale: decontestualizzare tutto ciò che potrebbe umanizzare il soggetto.
I guest stars della polemica: quando la credibilità è optional
Il documentario schiera una parade di personaggi controversi presentati come voci autorevoli: Matt Lauer (licenziato per molestie sessuali), Joy Behar, Shannon Sharpe che parla di “criminali bianchi pericolosi“. È un casting che sembra appositamente studiato per triggering ideological responses.
Peter King, ex Sports Illustrated, viene presentato come ex-amico deluso, ma il documentario non esplora mai le ragioni della rottura del loro rapporto. È lazy journalism che preferisce implicazioni a spiegazioni concrete.
Omissioni clamorose: quello che Netflix non vuole che tu sappia
Le omissioni sono forse più rivelatrici del contenuto stesso. Il documentario glissa completamente sulla diagnosi di Parkinson di Favre, mostrandola solo di passaggio. Non viene mai menzionato che Favre sta legalmente combattendo le accuse del caso Mississippi, né vengono analizzate le sue controargomentazioni legali.
Questo approccio cherry-picking è antitetico ai principi del documentarismo investigativo. Quando selezioni solo le informazioni che supportano la tua tesi preconfezionata, non stai facendo giornalismo – stai facendo propaganda.
Il timing sospetto: quando la politica incontra lo sport
Il tempismo del rilascio è altamente sospetto. Con Favre che ha recentemente espresso posizioni politiche conservatrici e endorsement pro-Trump, questo documentario sembra più un attacco politico mascherato da sports documentary.
La durata di 60 minuti per una carriera ventennale è ridicolmente inadeguata. Se l’intenzione fosse stata giornalistica, avremmo visto almeno 5 ore di materiale, includendo Green Bay, i record NFL, il cultural impact, le charity works.
Verdetto tecnico: un fallimento su tutti i fronti
Dal punto di vista della produzione documentaristica, “The Fall of Favre” fallisce ogni standard professionale:
- Bias editoriale evidente
- Source verification inadeguata
- Narrative structure squilibrata
- Character development inesistente
- Historical context completamente assente
È un esempio perfetto di come Netflix stia degradando il documentary filmmaking per creare content ideologicamente orientato invece di actual journalism.
Secondo te Netflix sta trasformando il documentarismo sportivo in propaganda politica? Oppure pensi che Favre meriti questo trattamento mediatico? Scrivimi nei commenti la tua opinione!
La Recensione
Untold: L'ascesa e la caduta di Brett Favre
Netflix rilascia un documentario-attacco contro Brett Favre focalizzato solo su due scandali. Regia di parte, fonti discutibili come Mike Vick, omissioni clamorose. Un assassinio mediatico mascherato da giornalismo investigativo che offende l'intelligence degli spettatori.
PRO
- Analisi delle tecniche di propaganda documentaristica moderna
- Jenn Sterger racconta la sua versione dei fatti
CONTRO
- Bias ideologico evidente e nauseante
- Mike Vick come guru morale è grottesco
- Omissioni clamorose sulla carriera di Favre