Cari cinefili del Wonder Channel, immaginatevi Will Ferrell che, invece di correre nudo in Old School, guida una Jeep scassata attraverso l’America per difendere i diritti LGBTQ+. È esattamente ciò che succede in Will & Harper, il documentario che ha trasformato il re della comicità in un paladino involontario del cinema sociale. Con il 99% su Rotten Tomatoes e una standing ovation a Sundance, il film è stato però snobbato dagli Oscar. Motivo? Ferrell punta il dito contro il doc-branch, definendoli “una setta di perdenti”. Ma cosa rende questo progetto così rivoluzionario (e scomodo) da far tremare i puristi dell’Academy?
Will & Harper: un road movie che scardina i cliché
Diretto da Josh Greenbaum, il film documenta il viaggio coast-to-coast di Ferrell e Harper Steele – ex sceneggiatrice di SNL e donna trans – in un’America divisa. Con uno stile cinéma vérité, la macchina da presa cattura dialoghi improvvisati, silenzi imbarazzanti e momenti di slapstick (come la scena in cui Will tenta di ordinare un “latte di soia” in un diner del Texas). L’obiettivo? Esplorare le insicurezze di Harper in stati come il Tennessee, dove il 63% delle persone trans ha subito discriminazioni.
Il montaggio alterna piani sequenza drammatici – come il ritorno di Harper nella casa d’infanzia in Iowa – a esplosioni di comicità surreale. «Volevamo mostrare la realtà senza filtri, ma con il linguaggio che ci unisce: le risate», spiega Greenbaum. Risultato? Una mise en scène che ricorda The Trip di Michael Winterbottom, ma con un twist sociale.
Perché l’Academy ha paura delle risate?
«Se siete del doc-branch, fatevi un giro», ha sbottato Ferrell al Late Show. La battuta nasconde una verità amara: dal 2016, nessun documentario “divertente” è entrato nella shortlist degli Oscar. I 5 candidati del 2025 – tra cui Porcelain War (sulla guerra in Ucraina) e Sugarcane (sugli abusi nelle scuole canadesi) – seguono tutti lo stesso schema: sofferenza pura, zero ironia.
Greenbaum non usa mezzi termini: «L’Academy premia solo storie di oppressione raccontate con un’estetica da film studentesco». Eppure, Will & Harper ha un merito innegabile: umanizza il dibattito sulla transizione senza retorica. Come nella scena in cui Harper spiega a Will: «Quando mi chiamano “signore”, è come cancellare 50 anni della mia vita».
La beffa degli Oscar: quando il populismo vince sull’arte
Ferrell lo ammette: «Il mio obiettivo non era la statuetta, ma far ridere Harper». Peccato che il doc-branch abbia ignorato anche il valore tecnico del film. La fotografia di Adam Bricker (già collaboratore di Duplass) usa luci naturali e inquadrature stabilizzate a mano per creare un effetto di intimità. E il sound design mixa rumori della strada (clacson, motori) con le ballad anni ’80 cantate a squarciagola dai due protagonisti.
Ma per l’Academy, conta di più il messaggio politico della forma. Come sottolinea un membro anonimo del doc-branch: «Ferrell è una celebrità, non un documentarista serio». Eppure, proprio la sua notorietà ha portato milioni di spettatori a riflettere sui diritti trans. Paradossi di Hollywood…
Cosa resta del cinema “impegnato”?
Mentre Will & Harper diventa un caso studio nelle università, l’Academy rischia di perdere contatto col pubblico reale. I dati parlano chiaro: il documentario ha incassato $4,7 milioni contro i $18k di Black Box Diaries (uno dei candidati). «È il solito snobismo: se piace alla gente, non può essere arte», commenta Harper durante un’intervista.
E tu, cosa ne pensi? Ferrell ha ragione a ribellarsi o il doc-branch difende il cinema “puro”? E soprattutto: preferisci un documentario che ti fa ridere e pensare, o uno che ti spezza il cuore? Scrivici nei commenti e sfida i tabù di Hollywood con la tua opinione!