Il producer Mario Fanizzi smonta con precisione chirurgica le difese a favore dell’autotune. Da Rkomi a Lucio Dalla, ecco perché la tecnologia vocale non è (sempre) musica.
C’è una linea sottile tra tecnologia e talento. E secondo Mario Fanizzi, produttore musicale di razza e uno che la musica la vive più che raccontarla, quella linea si chiama autotune. Ma attenzione: non il suo uso creativo, bensì l’abuso come stampella per chi, semplicemente, non sa cantare.
In un video diventato virale, Fanizzi prende di mira direttamente Rkomi e una certa “nuova scuola” italiana che difende l’autotune come fosse Van Gogh. Peccato che, sotto i layer digitali, spesso ci sia solo intonazione incerta e identità zero. E qui inizia il dibattito.
Cos’è davvero l’autotune?
Per chi non mastica produzione musicale, facciamo chiarezza. L’autotune è un software di correzione dell’intonazione, sviluppato alla fine degli anni ’90, e inizialmente usato per raddrizzare piccole imperfezioni vocali nelle registrazioni. Poi, come spesso accade con la tecnologia, qualcuno ha detto: “Ehi, ma se lo usiamo al massimo?”. Così è nato lo stile robotico che oggi è ovunque, da Travis Scott a Tananai.
Ma attenzione: correggere non è creare. L’autotune è un correttore ortografico per la voce. Se scrivi male, il correttore non fa di te uno scrittore. Anzi, come dice Fanizzi, è un po’ come il doping nello sport: ti fa sembrare più forte, ma è solo un’illusione.
La sparata su Lucio Dalla: verità o mito?
A mandare Fanizzi su tutte le furie è stata l’affermazione secondo cui anche Lucio Dalla usava l’autotune. “Sveglia!”, dice lui. Dalla cantava La sera dei miracoli con anima, polmoni e talento vero, in un’epoca dove il pitch correction manco esisteva.
Lucio era un musicista completo, capace di passare dal pop al jazz, con una voce che sapeva essere ruvida, celestiale, stonata quando serviva. Ma sempre vera. E oggi? Siamo pieni di voci tutte uguali, tutte appoggiate su type beat da tre accordi, dove l’unica variabile sembra essere l’effetto vocale impostato su preset “trap triste n.4”.
Tutti uguali, tutti piatti
“Con l’autotune diventate tutti uguali”, spiega Fanizzi. E ha ragione. Quando appiattisci ogni vibrazione, ogni piccolo tremore umano nella voce, elimini l’identità. Il risultato? Mille artisti indistinguibili che sembrano la stessa canzone remixata con un altro outfit.
L’autotune elimina il transiente, cioè l’attacco naturale del suono, e rende tutto spigoloso, sintetico, finto. Non è un caso se i producer ormai devono creare tappeti sonori sempre più articolati per dare tridimensionalità a voci che suonano come usciti da una stampante 3D.
L’argomento “ma fuori lo usano tutti”
Tra le scuse più gettonate c’è anche quella del “fuori dall’Italia è normale”. Ma Fanizzi, che fuori dall’Italia ci lavora davvero, smonta anche questa. “Andate nei locali a Londra o Berlino e vedrete artisti giovani che cantano intonati, senza autotune. Magari con una chitarra, magari su una base, ma con la voce vera“.
Il problema, secondo Fanizzi, non è l’autotune in sé. Ma l’uso disonesto. Chi lo utilizza come un effetto creativo, alla Cher o Kanye West, crea un’estetica. Chi lo usa per sembrare intonato, invece, nasconde la sua insicurezza vocale dietro una maschera digitale.
E allora cos’è davvero l’arte?
“Qualsiasi forma d’arte ha bisogno di competenze”, dice Fanizzi. E non potremmo essere più d’accordo. Se bastasse un plugin per essere cantanti, allora anche attaccare una banana al muro diventa arte. Oh, aspetta…
L’arte richiede studio, fallimenti, impegno, e soprattutto una voce autentica, anche se imperfetta. Perché è nell’imperfezione che risiede l’emozione. Quante voci iconiche hanno fatto la storia stonando meravigliosamente? Janis Joplin, Bob Dylan, Vasco Rossi… nessuno di loro avrebbe passato un provino da Amici. Ma avevano personalità, stile, verità.
Chi salva l’autotune? E chi lo rovina?
Lo usi come effetto? Bravə. Lo usi per mascherare una voce incerta? Male. Malissimo. E qui arriviamo alla vera domanda: perché lo si usa così tanto oggi?
Semplice. Perché il mercato vuole tutto subito. Vuole artisti che sappiano vendersi, non necessariamente cantare. E l’autotune è perfetto per confezionare un prodotto musicale low-cost. Ma a lungo andare, questo approccio toglie valore alla musica. Perché se chiunque può cantare, allora cantare non vale più niente.
Un appello a chi vuole davvero fare musica
Se sei un giovane artista e stai leggendo questo articolo: non avere paura della tua voce. Studiala, conosci i tuoi limiti e lavoraci su. L’autotune è una scorciatoia, e come tutte le scorciatoie ti fa risparmiare fatica, ma anche esperienza, evoluzione, personalità.
Prenditi il tempo per sbagliare, per crescere. Per imparare a cantare sul serio, non a suonare finto.
Conclusioni: meno plugin, più cuore
L’autotune è uno strumento, non un talismano. E chi pensa che basti un preset per essere artista, sta confondendo effetto con emozione. Mario Fanizzi lo dice senza peli sulla lingua, e in un momento in cui la musica sembra sempre più un algoritmo e sempre meno una vibrazione dell’anima, la sua voce suona come un richiamo importante.
E tu cosa ne pensi?
Usi l’autotune per migliorare o per nasconderti? Pensi che oggi si canti meglio o peggio rispetto a vent’anni fa? Scrivilo nei commenti!