Parliamoci chiaro: Magazine Dreams è difficile da recensire senza parlare dell’elefante nella stanza. Jonathan Majors, il protagonista, è stato accusato di abusi dalla sua ex fidanzata poco prima dell’uscita del film. E il bello (o il brutto, dipende da come lo guardi) è che il suo personaggio ha problemi di aggressività e violenza. Coincidenza scomoda? Eccome. Ma mettiamo da parte per un attimo la cronaca e parliamo del film in sé.
La versione nera di Taxi Driver
Magazine Dreams è un dramma cupo che vuole chiaramente essere il nuovo Taxi Driver. Sai, quel capolavoro di Scorsese con Robert De Niro che fa il tassista disturbato? Ecco, qui abbiamo Killian Maddox (Jonathan Majors), un bodybuilder amatoriale con un passato traumatico di violenza, probabili problemi mentali, rabbia da vendere, disfunzioni sessuali, problemi economici e pure l’onere di prendersi cura del nonno veterano del Vietnam.
Il regista Elijah Bynum non nasconde nemmeno i suoi omaggi a Scorsese. C’è la scena al poligono di tiro con la camera che vola verso il protagonista? Check. Scene di allenamento ossessivo che ricordano Travis Bickle che si prepara alla guerra urbana? Check. Un appuntamento disastroso con una collega del supermercato? Check. Una narrazione fatta di lettere a un bodybuilder famoso? Check. C’è persino una scena presa pari pari da Boogie Nights.
Il problema? Questi omaggi e prestiti – non solo da Scorsese ma da tanti altri film famosi – soffocano il film e gli impediscono di respirare da solo. È come guardare una cover band brava ma che non avrà mai l’originalità della band principale.
La questione razziale che cambia le carte in tavola
Ma c’è una cosa che rende Magazine Dreams diverso da tutti gli altri film che ho citato: il protagonista è nero. E lo sceneggiatore-regista Bynum (anche lui afroamericano) fa della razza un fattore centrale nell’alienazione di Killian.
Il film si collega a uno dei romanzi americani più importanti del Novecento: Native Son di Richard Wright. Quel libro era praticamente la risposta afroamericana a Delitto e castigo di Dostoevskij, e parlava dei fattori sociali che creano un antieroe omicida. Alcune frasi del romanzo descrivono perfettamente la discesa di Killian: “Gli uomini possono morire di fame per mancanza di autorealizzazione tanto quanto per mancanza di pane” e “La violenza è una necessità personale per gli oppressi”.
Né Wright né Bynum usano questo come scusa per la violenza di Killian. Semplicemente ti danno un contesto da tenere a mente mentre guardi. Killian parla di cose che tutti i bianchi del film probabilmente non considererebbero mai: il fatto che lui e suo padre vivono in un “deserto alimentare” con altra gente economicamente svantaggiata, e quindi deve guidare per 12 chilometri per fare la spesa. Oppure come le forze dell’ordine vedano i giovani afroamericani come automaticamente colpevoli di qualcosa, anche quando non hanno fatto nulla – come quando una volante lo ferma aggressivamente mentre fa jogging di notte con la felpa (ricordi Trayvon Martin?).
La scena del ristorante che ti fa riflettere
C’è una scena potentissima a metà film. Killian, ormai al limite fisico e mentale, affronta in un ristorante un uomo bianco che l’aveva pestato selvaggiamente davanti alla casa di suo padre. L’uomo sta mangiando con moglie e due figli piccoli, quindi la scena viene vista dagli altri clienti come “spaventoso uomo nero terrorizza innocenti bianchi”.
Ma la storia è più complicata. Il pestaggio era una ritorsione perché Killian aveva distrutto un negozio di ferramenta. E Killian aveva distrutto il negozio perché loro avevano mandato imbianchini incompetenti a casa di suo padre e si erano pure presi gioco dell’idea di tornare a rifare il lavoro bene. I clienti del ristorante non sanno niente di tutto questo. Comprano la storia dell’altro tipo – “sono solo un papà normale che vuole cenare con la famiglia” – e assumono che Killian sia un nero violento e pazzo che si inventa storie ridicole, invece di qualcuno intrappolato in un ciclo di violenza con tanti cattivi ma nessun eroe.
Vorrei che ci fossero più scene così nel film. Scene che ti mostrano qualcosa che non hai mai visto in questo tipo di pellicole, invece di nuove versioni di cose già viste mille volte.
La performance straordinaria di Majors
E qui arriviamo al punto forte del film: la recitazione di Jonathan Majors è straordinaria. Eleva l’intero film e gli dà sfumature che compensano in parte la natura derivativa della storia. Majors ha preso questo ruolo subito dopo aver fatto l’antagonista in Creed III, dove aveva già dovuto scolpire un fisico da pugile. Qui è andato oltre, aggiungendo massa muscolare mangiando quantità enormi di proteine e allenandosi diverse ore al giorno.
Ma non è solo una trasformazione fisica da cliché attoriale. Majors aggiunge accenni di profondità, complessità e fragilità a Killian che riconosci dalla vita vera, non solo da altri film. Nota i suoi sguardi furtivi che evitano sempre gli occhi delle altre persone. Il tempismo strano delle sue risposte verbali. La mancanza di controllo sul tono. Ci sono indizi che il personaggio potrebbe avere problemi di sviluppo, disturbi emotivi, essere nello spettro autistico, avere danni cerebrali dai suoi allenamenti masochistici o da incidenti violenti passati (una radiografia mostra pezzi di metallo nel cranio), o tutto quanto insieme.
Ma Majors non sottolinea mai niente, non semplifica mai Killian. Ti lascia vedere vaghi accenni di risposte, poi ti lascia riempire i vuoti con la tua immaginazione. Questo garantisce al personaggio un minimo di empatia anche quando è al suo momento più mostruoso. Immagina Bigger Thomas di Wright incrociato col mostro di Frankenstein, che fantastica di vincere il concorso di Mr. Universo.
Il verdetto
Magazine Dreams è complicato da valutare. È un film che copia troppo da Taxi Driver e altri classici, soffocando la propria originalità. Ma ha anche momenti genuinamente disturbanti e rivelatori, soprattutto quando affronta la questione razziale in modi che altri film del genere non hanno mai fatto.
E poi c’è Jonathan Majors, che consegna una delle sue migliori performance in assoluto, allo stesso livello del suo lavoro in The Last Black Man in San Francisco e The Harder They Fall. Il fatto che questo potrebbe essere l’ultima apparizione sullo schermo di un uomo che sembrava destinato a diventare una leggenda prima di autodistruggersi aggiunge un livello non voluto a un film già abbastanza stratificato.
Vale la pena vederlo? Sì, soprattutto per la performance di Majors. Ma preparati a vedere tanti omaggi a Scorsese e a sentirti un po’ a disagio per l’intreccio tra arte e vita reale. Le persone sono complicate. Anche la vita lo è, e pure il nostro rapporto con l’arte.
La Recensione
Magazine Dreams
Magazine Dreams è un dramma cupo che segue Killian Maddox (Jonathan Majors), bodybuilder amatoriale afroamericano con traumi infantili, problemi mentali e rabbia repressa. Il film di Elijah Bynum vuole essere il nuovo Taxi Driver ma copia troppo da Scorsese e altri classici, soffocando la propria originalità con omaggi evidenti. La differenza principale rispetto ai modelli è che affronta la questione razziale mostrando come i fattori sociali contribuiscano all'alienazione del protagonista, collegandosi al romanzo Native Son di Richard Wright. Jonathan Majors offre una performance straordinaria che eleva l'intero film, ma l'arrivo in streaming sembra complicato dalle accuse di abusi fisici ed emotivi contro l'attore, creando un intreccio scomodo tra arte e vita reale.
PRO
- Jonathan Majors offre una performance straordinaria che potrebbe essere una delle sue migliori in assoluto
- Il film affronta la questione razziale in modi che altri film del genere non hanno mai esplorato
- Ci sono scene potenti come quella del ristorante che ti fanno riflettere sul razzismo sistemico
CONTRO
- Copia troppo da Taxi Driver e altri classici senza trovare una voce originale propria




